La ritrattistica di Augusto De Luca nasce dall’incontro di anime che in qualche maniera cercano di intercettarsi per stabilire insieme un’affinità che, in assenza, non determinerebbe la giusta relazione tra il fotografo e il soggetto fotografato. È una questione di climax, della ricerca cioè di un flusso innervato da complicità e reciproco rispetto. Tuttavia, queste notazioni altro non sono che le pre-condizioni perché un ritratto sprofondi dalla superficie d’un corpo, di un volto per penetrare nell’essenza identitaria.
De Luca conosce – e apprezza – ognuno dei personaggi ritratti. E si vede già da una prima visione dei suoi lavori. Ma se vogliamo districarci criticamente nel suo lavoro non possiamo non notare l’elaborato sistema di segni in cui immette i soggetti. E qui vediamo come non c’è niente di casuale. Un oggetto, una posa, persino un’ombra, tutto dialoga con il soggetto; anzi, ne sono parti funzionali, medium attraverso i quali vediamo legato il personaggio in una relazione imprescindibile. I suoi ritratti rimandano al già citato Arnold Newman e ai suoi environmental portaits e in cui vogliamo vedere la portata di una lezione, alta, che non ha ancora esaurito la sua possanza. Ed è confortante apprendere che uno stile, un linguaggio non sia disperso dai continui tentativi di innovare la ritrattistica fotografica, perché, molto spesso, una Babele di linguaggi non aiuta a comprendere.
Qui, nelle fotografie di Augusto De Luca, il gusto per la tradizione è solido; e in questo ravvisiamo un rispetto che ha sconfina nella devozione, la stessa che, come si è detto, il fotografo prova i soggetti. Solo così, ad esempio, ci pare possibile fotografare Pupella Maggio e incardinarne l’anima, umana e professionale, mettendola cioè a dialogare con il grande Eduardo, la cui fotografia esala non solo sentori di mise en abyme ma ricompone e restituisce un’anima non solo all’attrice ma senso all’intera composizione fotografica.
Più spesso De Luca affida alle ombre di farsi messaggere. Esse infatti ci anticipano, per poi svelare docilmente il senso di un gioco, di una sciarade ben congegnata all’interno dei segni fotografici. Così la “doppiezza” di un’altra attrice, Lina Sastri, è chiamata a un tempo a disvelarsi nella sua natura femminile e, insieme, nel suo lato professionale, attraverso l’efficacissimo espediente di un’ombra che ne riunisce la distanza. Ma al tempo stesso, l’ombra è destinataria d’un messaggio essenziale, una presenza che, seppure più vistosa del soggetto e incoerente con il soggetto stesso, ci fornisce molte più indicazioni rispetto a quanto non ricaveremmo da un ritratto convenzionale.
È il caso del ritratto di Lucia Trisorio, mitica gallerista alle cui spalle incombe il senso di un’attività professionale che non può in alcun modo essere disgiunta dalla naturale, dirompente vocazione personale. La ritrattistica di Augusto De Luca – che, ricordo, è una porzione del suo lavoro, seppure importante – seduce, è empatica, chiama l’osservatore a intessere con il ritratto una connessione volta alla fondazione di nuove suggestioni, aprendo territori interpretativi.
Lo sguardo di Augusto De Luca ha quella giusta commistione di intenti: da un lato il suo obiettivo è strumento, fermo nella freddezza dello scatto, dall’altro lo libera alla ricerca di quel tanto di segreto, di intimo, che vive nell’inesplorabile privato, nel non negoziabile spazio della riservatezza, lati che molto spesso emergono quando il ritratto è mera rappresentazione.
I ritratti di De Luca invece posseggono molto più che la smania collezionista di volti celebri che dimostrano d’avere altri suoi colleghi. Tutti posseggono, ad esempio – e qui è l’autentico merito del fotografo – una volontà quasi arrendevole a lasciarsi raccontare, ad aprirsi al racconto, in una parola a lasciarsi “leggere”. E noi che osserviamo questi splendidi ritratti non possiamo che ringraziare un autentico protagonista della fotografia italiana, un artigiano delle sensazioni.