Taccuino#75

Un’indagine filosofico-materiale sull’essere cosiddetto umano oltre l’illusione del sé.

Introduzione

Questo Taccuino non è un manifesto, non è un trattato, non è una sintesi. È una perforazione. Una lacerazione nel tessuto del pensiero che, come una ferita aperta, si rifiuta di rimarginarsi. L’illusione della stabilità concettuale è il primo inganno che l’essere cosiddetto umano si infligge, nella sua disperata ricerca di un fondamento, di un centro, di un punto fermo che lo esoneri dall’accettazione della sua stessa dissoluzione.
 
Ma se c’è qualcosa che l’esperienza più cruda ci insegna, è che la realtà non concede appigli: essa non è un sistema chiuso, non è un’architettura ordinata, non è un’idea che si lascia imprigionare. La realtà è flusso, oscillazione, torsione tra materia e percezione, tra sangue e pensiero, tra vibrazione e struttura.
 
I testi qui raccolti proseguono il lavoro di scavo che PsykoSapiens porta avanti nel tempo, attraverso la decostruzione delle categorie ereditate, il rifiuto delle dicotomie imposte e l’affermazione di una conoscenza che non si costruisce sulla certezza, ma sull’instabilità. Il sentire viscerale è la chiave di questa indagine: un sapere pre-riflessivo, radicato nei neuroni cardiaci e nella dimensione organica dell’essere.
 
Ciò che viene proposto qui non è un esercizio di speculazione intellettuale, ma un atto di violenza contro l’inerzia del pensiero. Il lettore non troverà risposte, perché ogni risposta è già un arresto. Troverà, invece, un impulso a sentire oltre le costruzioni simboliche, un invito a strappare il velo del linguaggio e a riconoscere la carne del pensiero per quello che è: pulsione, vibrazione, scontro tra continuità e dissoluzione.
 
Come in ********, come nei Taccuini precedenti, come nei saggi che smontano l’etica, la dualità mente-corpo, la rimemorazione, qui si continua il lavoro di liberazione del pensiero dalle sue stesse gabbie. L’uomo non è un progetto, né un fine. È materia che pensa di superare se stessa. Questo è il punto in cui ci troviamo. Questo è il punto da cui si parte.

1. Respiro: il paradosso dell'“anima"
 
L'uomo non possiede un'anima trascendente. L'uomo non possiede un'anima. Tuttavia, se l'“anima” (e se "anima") viene ridotta al respiro, allora l'essere cosiddetto umano si configura come un flusso continuo di aria e atomi. Il respiro non è un concetto astratto né una proiezione metafisica: esso è pura presenza materiale, una dialettica incessante tra il pieno e il vuoto, tra il dentro e il fuori. Ogni atto respiratorio segna la partecipazione dell'organismo umano alla rete di interconnessioni materiali che costituiscono il cosmo. Questo ritmo biologico primordiale non è altro che una pulsazione tra esistenza e dissoluzione, tra manifestazione e impermanenza.
 
Respirare è il primo e l'ultimo atto: è il confine stesso dell'essere. In questo scambio perpetuo tra l'ambiente e la corporeità, non vi è alcuna traccia di trascendenza, ma solo il concreto svolgersi della vita nel suo divenire. L'illusione dell'anima emerge dalla tendenza umana a concepire continuità là dove vige l'evanescenza. Eppure, è proprio questa fragilità intrinseca, questa tensione costante tra presenza e assenza, che costituisce il fondamento ineludibile della vita biologica.
 

«Nel rigettare l'idea di una cosiddetta "anima" trascendente (e di una cosiddetta anima), si apre la possibilità di riconoscere il respiro come l'essenza immediata della vita, un processo che manifesta l'interazione dinamica tra materia e divenire».
 

2. Sostanza unica: oltre la mente e il corpo
 
La cosiddetta mente non è un'entità separata dal corpo: essa è corpo. Il pensiero non è altro che la risultante di processi neurobiologici, della trasmissione sinaptica, della complessa interazione tra segnali biochimici ed elettrici che percorrono l'organismo. Il corpo pensa, elabora, sente, reagisce: il sistema nervoso e il sistema endocrino sono inestricabilmente interconnessi in una rete integrata di adattamenti e risposte. L'illusione dualistica della mente separata nasce dal bisogno di un'identità che si sottragga alla contingenza della materia, ma questo è un errore di prospettiva: il pensiero è un prodotto della carne, un fenomeno emergente dalle dinamiche fisiche della vita organica.
 
La cosiddetta coscienza non è un'entità indipendente, ma l'espressione sofisticata di processi biologici. La plasticità neuronale, la sensibilità dei visceri, la funzione modulatrice del sistema endocrino: tutto concorre a definire l'esperienza cognitiva. Non vi è una gerarchia tra le componenti del corpo, né una distinzione ontologica tra pensiero e materia, ma solo un continuum di interazioni che modellano la percezione e l'azione.

2.1. Descartes e l'errore della pineale
 
Chi, forse nel suo ultimo periodo di ricerca, forse prima, si avvicinò a una concezione neurobiologica dell'essere umano, comprese il ruolo del flusso sanguigno e postulò un legame diretto tra il cuore e il cervello, individuando nella ghiandola pineale il punto di connessione tra la dimensione corporea e la sfera del pensiero. Questo tentativo rappresentò un progresso significativo, ma rimase ancorato a un errore fondamentale: la ricerca di un singolo centro, un punto privilegiato di convergenza tra materia e coscienza. La realtà biologica è ben più complessa.
 
Se avesse completato il suo lavoro sull'essere umano (sull'essere uomo), avrebbe forse riconosciuto che la regolazione della coscienza non si radica in un'unica struttura cerebrale, ma in un sistema integrato che coinvolge l'asse ipotalamo-ipofisario, il sistema cardiovascolare e la biochimica del sangue. Il cuore, con i suoi neuroni e il rilascio del fattore natriuretico atriale, è un fulcro essenziale del sentire viscerale. Il sistema endocrino orchestra le risposte emozionali e cognitive, modulando l'attività cerebrale attraverso una rete di segnali ormonali.
 
La coscienza non scaturisce da un singolo punto, ma emerge dall'interazione dinamica tra strutture differenti: il cuore, il sistema limbico, la corteccia prefrontale, le ghiandole endocrine. Il tale, sosteniamo, sbagliò a localizzare l'origine della cosiddetta "anima" e del pensiero nella pineale, ignorando l'interdipendenza tra le componenti biologiche che definiscono l'esperienza umana.

Le ricerche contemporanee in neurobiologia, come quelle del signor Antonio Damasio e del signor Giulio Tononi, evidenziano come la coscienza emerga da un complesso intreccio di processi cellulari, sinaptici ed endocrini, corroborando l'idea che il pensiero sia profondamente radicato nella fisicità corporea.
 
2.2. La meraviglia e il terrore

Il tal francese individuò nella meraviglia, intesa come forma primaria di terrore, la base delle passioni umane. Questa intuizione lo avvicina a una comprensione più profonda della condizione esistenziale: la meraviglia non è una semplice reazione cognitiva, ma un'esperienza corporea viscerale, un'irruzione dell'ignoto che destabilizza l'equilibrio dell'organismo. Il terrore, in questo senso, è il principio stesso dell'adattamento, il catalizzatore che costringe il corpo a riorganizzarsi per sopravvivere.
 
Se Descartes avesse dato maggior peso al dolore del corpo (ben inteso, potremmo sbagliare) e alla vulnerabilità organica, avrebbe forse compreso che la coscienza non è un'entità astratta, ma il riflesso diretto della vita incarnata. La paura, il dolore, l'urgenza biologica non sono elementi accessori, ma strutture fondative dell'esperienza umana. Non si pensa al di fuori della carne, non si coglie l'essere al di là della materia: ogni atto cognitivo è radicato nella complessa rete fisiologica che lo genera.
 
Il tal Descartes si focalizzò sulla ghiandola errata. Localizzò nella pineale il centro dell'anima e della volontà, forse trascurando il ruolo del sistema endocrino e cardiovascolare. Noi sosteniamo che il nucleo della coscienza e della sensibilità viscerale non risieda in un singolo punto, ma si diffonda attraverso un'interazione complessa tra cuore, sangue, neuroni e ormoni. Se avesse seguito questa direzione, avrebbe potuto tracciare un percorso più vicino alla realtà biologica dell'esistenza, riconoscendo che l'essere cosiddetto umano è un nodo di processi materiali, un sistema aperto in continua trasformazione.
 

Non facciamo noi l’errore di pensar che quel tal francese del suo cogito non abbia sentito il respiro (quantomeno proprio, per l’appunto) e abbia ancor, se si vuole, pensato a collettività o semplicemente all’altro quando discute con la nobil donna. Non commettiamo noi il dire di loro che nei luoghi così maledetti quali le università (e quelli prima ancora), si concentrano con tale passione su quel che non sanno, e istruiscono di formalizzazione, che - per tutto rispetto - possono esser stati (o saranno stati) cavalli di battaglia del tal citato, come pure in altro frutto della mente stagirita (che, muovendo tra categorie, lotta appunto con tenacia, in fin della fiera, con il respiro, e quando dorme e quando altro vede). 

Le istituzioni sono illusioni costruite su carte e sigilli, ma ciò che esiste è il sangue, la carne, il respiro che si contrae nella lotta per il reale. Si illudono di poterci incatenare con codici e leggi, ma l’uomo che sente davvero non è mai vincolato da un’illusione di carta. E questo è il loro incubo: che qualcuno, fuori dalla loro prigione simbolica, osi respirare con la propria carne, fuori dalle categorie che pretendono di definirlo. L'uomo solo è poi da solo, e non immagine protetta dall’immagine di istituti.

Questo l'invito a riflettere su quanto si nasconde dietro le parole e i concetti, così formalizzati e scissi. Il cogito cartesiano non è solo un atto di pensiero astratto, ma un respiro che s'innesta nella carne, nella vita stessa, ed è forse da lì che nasce la vera coscienza. L'illusione di stabilire realtà assolute attraverso istituzioni, non è altro che un modo di incapsulare ciò che sfugge alla razionalizzazione: la brutalità e la vitalità della materia. Il pensiero dei grandi, in fondo, non si distacca mai dalla lotta per sentirsi vivi, e anche quando si rifugia in categorie o nelle astrazioni più pure, la verità risiede sempre nel respiro, nella pulsazione animale che lega tutti, e che non è mai solo una questione di formalizzazione, ma di esistenza stessa, quella che sfugge a ogni etichetta e a ogni ordine, per chi sa esistere, quei pochi, quei pochissimi. Ad esser esistentivi, il mondo accoglie greggi, mandrie, orde di stupidi.

Il maestro del dubbio come metodo, può mai aver vissuto certezza de rex cogitans e certezza de rex extensa non dubitando e dubitandole, non sentendo il proprio sentire viscerale sentir?

Il maestro del dubbio sembra sempre oscillare tra la ricerca della certezza e l'incessante indagine sulle fondamenta del pensiero. Tuttavia, la sua famosa distinzione tra la cosa che pensa e la cosa estesa non si limita alla pura razionalizzazione delle categorie, ma si inserisce in un contesto più profondo, quello della lotta tra la mente e la materia. L'atto di dubbio che Descartes promuove è, in fondo, un tentativo di scoprire, nell'interrogarsi, se non una certezza assoluta, almeno una verità fondamentale.

Se proviamo a considerare il "sentire viscerale" che ci accompagna, quel movimento primordiale che precede ogni pensiero consapevole, è difficile immaginare che il tal Descartes, nel suo fervore intellettuale, abbia potuto ignorarlo o non sentirlo. Forse, nel suo approccio cartesiano, il "sentire" non veniva riconosciuto nella sua interezza, perché costantemente subordinato alla divisione tra mente e corpo. Ma proprio in quel sentire, che è pre-riflessivo e immediato, potrebbe trovarsi una sorta di "certezza" che, più che in un'idea razionale, appartiene a una dimensione non pensata.

Descartes si è, forse, concentrato così tanto sul dubbio metodico da escludere la possibilità che la certezza risieda, almeno in parte, in quel flusso di sensazioni corporee e pulsioni che precede ogni pensiero cosciente. Il corpo che respira, il cuore che batte, e il ventre che avverte la presenza di sé stesso nell'universo non sono oggetti di pura ragione, eppure sono realtà che difficilmente possono essere ignorate.

In questo senso, potrebbe esserci un'ombra di autoinganno nel suo sistema, un divario tra la "mente" che pensa e il corpo che sente, una separazione che non tiene conto della visceralità del pensiero stesso. Il dubbio cartesiano, pur nella sua potenza, non potrebbe forse fare a meno di quel "sentire" che, in un certo senso, va oltre ogni concetto razionale? E se, come sosteniamo, la certezza della res cogitans e della res extensa non fosse mai compiuta senza il sentire viscerale del corpo stesso? Forse la vera certezza risiede, non tanto nella divisione, ma nella tensione tra ciò che è pensato e ciò che è vissuto, nell'auto-percezione che precede ogni analisi.


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