E’ stato un incontro non previsto, quello con i colori, i pennelli e le tele, avvenuto un paio di anni orsono, quasi alla soglia dei suoi cinquant’anni. Inatteso ma accolto con passione ed entusiasmo.
L’artista forlivese scopre un mondo che sente appartenergli, quello dell’espressione pura e inizia a creare, dapprima mosso da frenesia quasi incontrollabile, poi, grazie anche all’ausilio di validi maestri, con sempre maggiore capacità analitica, riuscendo a mediare tra istinto e razionalità. Ne risulta una pittura tecnicamente sorprendente ed una visione dell’immagine completamente “spaesata” dalla realtà convenzionale, ma non dalla sua realtà. Le sue improbabili prospettive, gli accostamenti eccentrici, nascono da azzardi coloristici che hanno origine in una “follia” del pensiero non censurata, che pochi artisti hanno la capacità o il coraggio di liberare e non a caso le sue opere ci ricordano inevitabilmente artisti come Andrè Derain e Maurice de Vlaminck, in altre parole, quel breve momento che nella Parigi del 1905 vide la nascita della corrente artistica dei fauves.
Ma oggi, a 110 anni dalla fine di quella esperienza (il movimento si sciolse nel 1907), Stefano Montecchi, ovviamente con presupposti diversi, ci riconduce ad uno degli aspetti fondanti dell’arte: la forza dell’espressione. Le sue scelte cromatiche rappresentano molto esplicitamente la tensione generatrice di concettualità contrapposta ad istinto, il linguaggio pittorico che ne deriva è quasi indecifrabile, un enigma non codificabile con la razionalità del critico, ma che tocca sicuramente le corde emozionali dell’osservatore.