Un’altra volta sabato di Lorenzo Zucchi è un romanzo che lavora sottopelle. Non ha bisogno di effetti speciali per farsi sentire. La storia di Georgiana, una donna spezzata ma ancora in piedi, basta da sola a evocare una tempesta silenziosa. Non serve aver vissuto nella Romania comunista per sentire il gelo di certe situazioni. Basta avere memoria. Basta sapere cosa significa non appartenere.
La narrazione segue il ritorno di una donna nel suo paese d'origine, dopo un periodo in Italia segnato da una tragedia personale: la perdita del marito in un incidente sul lavoro. Ma questo evento non è solo un fatto, è uno spartiacque. Segna la fine di una speranza e l’inizio di un percorso di riconoscimento amaro. Georgiana sceglie di riportare la figlia Esther in Romania, con il desiderio che impari la lingua e si integri. Ma il suo gesto è anche una richiesta implicita: cerca di ritrovare sé stessa attraverso un luogo che ormai le è diventato estraneo.
L'autore costruisce, da quanto si comprende, una narrazione che alterna ricordi e presente. Non c’è fuga nel passato, c’è confronto. Il passato non è nostalgia, è confronto continuo. Ogni episodio, ogni pensiero di Georgiana, risuona come una domanda senza risposta. Il lettore si trova di fronte a una realtà che non è lontana. Non è la Romania in sé il tema, ma la struttura mentale che sopravvive oltre ogni rivoluzione politica. Maschilismo, indifferenza, corruzione, abitudine all’adattamento. Sono questi i veri antagonisti.
Georgiana non è una donna che cerca di adattarsi, ma neanche si ribella con fuoco e rabbia. Porta dentro una forma di lotta più sottile. Ogni sua scelta, ogni riflessione è un tentativo di difendere un’idea di dignità. Vuole crescere una figlia diversa, ma si scontra con un mondo che è rimasto fermo. Non è solo la Romania ad averla delusa, ma l’idea stessa che i luoghi possano salvarci.
Questa è forse la parte più potente del romanzo: la demolizione dolce e costante del mito del ritorno. Tornare a casa, tornare alle origini, tornare a un tempo migliore… tutto questo viene lentamente smontato dalla voce della protagonista. Non c’è casa che tenga, se i muri sono costruiti su fondamenta marce. Non c’è lingua che possa accogliere, se chi la parla non sa ascoltare.
Esther, la figlia, diventa un altro nodo centrale. Una figura che cresce in un’epoca e in un luogo che non riconosce, ma che deve comunque imparare ad affrontare. L’apprendimento del rumeno diventa metafora. Non si tratta solo di imparare parole, ma di dover ingoiare un modo di vivere. Georgiana, nel volerle trasmettere una parte di sé, si trova anche a farle da scudo. La figlia rappresenta ciò che può ancora cambiare, e proprio per questo ogni frustrazione della madre risuona con ancora più forza.
Il titolo ritorna, ogni volta, come una maledizione. Il sabato non è semplicemente un giorno della settimana. È un simbolo di sosta forzata, di momenti in cui la vita sembra fermarsi e ricordarti che le cose non sono come dovrebbero. Per Georgiana il sabato diventa emblema di attese deluse, di silenzi pesanti, di eventi che si ripetono. È un tempo che fa il giro e torna sempre lì, dove nulla cambia davvero.
E proprio qui si percepisce la profondità del romanzo. Non c’è bisogno di grandi colpi di scena. L’intensità nasce dalla continuità del dolore, dalla lucidità con cui la protagonista osserva la realtà. In un’epoca dove tutti cercano narrazioni consolatorie, “Un’altra volta sabato” offre invece uno sguardo vero. Non crudele, non cinico, ma lucido. E questa lucidità è ciò che lo rende un libro necessario.
Non ci sono eroi, non ci sono risposte facili. Ma c’è la volontà di raccontare quello che spesso viene lasciato ai margini. La fatica di vivere in un contesto che ti chiede di rinunciare, ogni giorno, a qualcosa di te stessa. Il desiderio di proteggere una figlia, e allo stesso tempo la paura di trasmetterle lo stesso senso di impotenza. La difficoltà di dire le cose come stanno, senza edulcorare. Tutti questi elementi rendono la narrazione una lunga immersione in uno stato d’animo che conosce bene chiunque abbia cercato di cambiare qualcosa e si sia scontrato con il peso delle strutture.
Lorenzo Zucchi non ha scritto un romanzo che offre soluzioni. Ha dato voce a chi osserva da dentro, a chi ha il coraggio di restare lucido anche quando sarebbe più facile chiudere gli occhi. Georgiana, con la sua voce calma ma determinata, ci accompagna in un viaggio dove il vero nemico non è fuori, ma dentro. Dentro i sistemi, dentro le parole non dette, dentro le scelte che sembrano libere e invece sono condizionate.
Ciò che resta alla fine del libro non è solo una storia. È una sensazione. Una consapevolezza silenziosa. La certezza che certe battaglie non si vincono in piazza, ma dentro i gesti quotidiani. E che riconoscere la fatica è già un atto di ribellione