L’ascesa di Giorgia Meloni come prima donna Presidente del Consiglio in Italia rappresenta un evento storico che, a prima vista, potrebbe sembrare una conquista per le donne. Tuttavia, questa vittoria simbolica solleva interrogativi profondi sulla natura del femminismo e sul suo rapporto con la destra politica. Il caso Meloni, leader di Fratelli d’Italia, evidenzia le contraddizioni tra l’essenza del femminismo e le politiche della destra sovranista e populista italiana.


Il femminismo: una lotta per l’inclusione e il cambiamento

Il femminismo non è un’etichetta neutrale o un simbolo privo di contenuto politico: è un movimento storico e radicale, nato per combattere le disuguaglianze di genere e per trasformare una società ingiusta in un sistema più equo per tutti. Si oppone alle strutture oppressive, promuovendo libertà, autonomia e autodeterminazione per le donne. Non è, inoltre, una battaglia isolata: il femminismo moderno è intersezionale, cioè tiene conto delle molteplici forme di oppressione che interagiscono con il sessismo, come il razzismo, il classismo e l’omofobia. Questo lo rende difficilmente conciliabile con le politiche della destra, che spesso privilegiano il mantenimento dello status quo, la difesa dei privilegi consolidati e una visione gerarchica della società.


Le contraddizioni del “femminismo di destra”

L’idea di un femminismo di destra, seppur rivendicata da alcune figure politiche, appare intrinsecamente contraddittoria. In Italia, Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni utilizzano la retorica della parità di genere come strumento per giustificare politiche conservatrici e xenofobe, una dinamica nota come "femonazionalismo". Questo fenomeno strumentalizza i diritti delle donne per legittimare campagne contro gli immigrati e retoriche securitarie, distorcendo il significato originario del femminismo. Un esempio emblematico è la narrativa secondo cui la violenza di genere sarebbe legata principalmente all’immigrazione irregolare. Meloni e il suo partito spesso associano la tutela delle donne al controllo delle frontiere, nonostante i dati dimostrino che la maggior parte delle violenze avviene all’interno delle mura domestiche, per mano di partner o familiari. Inoltre, il sostegno dichiarato alle donne è frequentemente inquadrato nel loro ruolo tradizionale di madri e caregiver, ignorando l’importanza dell’autonomia economica e personale.


Una vittoria per le donne? Non proprio.

L’elezione di Meloni sarebbe certamente significativa in termini di rappresentanza di genere, ma questa conquista simbolica non è automaticamente un progresso per il femminismo. Essere una donna al potere non implica necessariamente la promozione di politiche favorevoli alle donne o un impegno per la loro emancipazione. Meloni ha costruito la sua immagine politica enfatizzando forza e autorità, spesso utilizzando un linguaggio e un approccio che ricalcano stereotipi maschili. Piuttosto che sfidare le dinamiche patriarcali, la sua leadership sembra consolidarle, presentandosi come un'eccezione che conferma la regola di un sistema dominato dagli uomini.

Le sue posizioni su temi chiave come i diritti riproduttivi, il ruolo della famiglia e le politiche sociali sono lontane dalle lotte femministe. L’opposizione all’aborto e la difesa della “famiglia naturale” evidenziano una visione che perpetua disuguaglianze strutturali, piuttosto che affrontarle.


Il femminismo non è neutrale

Il femminismo nasce come forza di emancipazione, una risposta al potere squilibrato e alle disuguaglianze sistemiche che escludono e opprimono. Non è solo un movimento per l’uguaglianza, ma per la liberazione da norme e strutture che limitano la libertà di tutti. Le sue radici affondano nella sfida all'autoritarismo culturale, economico e sociale, e per questo non può fiorire in ideologie che rafforzano quei sistemi. La destra italiana, con il suo attaccamento all’ordine patriarcale e alla "famiglia tradizionale", non sostiene la piena autodeterminazione delle donne, ma piuttosto ne limita il ruolo a custodi del nucleo familiare. Sotto questa visione, l’idea di progresso si appiattisce in una difesa di privilegi consolidati, spesso mascherati da retoriche superficiali sulla parità. Un femminismo autentico, invece, scardina queste visioni per costruire un futuro più libero e inclusivo, opponendosi alle gerarchie che le mantengono in vita.

L’eventuale elezione di Meloni può essere vista come un successo individuale, ma non rappresenta una vittoria collettiva per le donne. Un vero progresso femminista richiederebbe politiche che affrontino le disuguaglianze strutturali, promuovano l’inclusione e sfidino i privilegi consolidati. Una leadership femminista non si limiterebbe a celebrare l’ascesa simbolica di una donna al potere, ma lavorerebbe per garantire che tutte le donne abbiano l’opportunità di partecipare pienamente alla vita pubblica e politica.


Conclusioni

Il caso di Giorgia Meloni mette in evidenza una tensione fondamentale: essere una donna in politica non significa automaticamente essere femminista. L’ideologia della destra italiana, con la sua enfasi su tradizione, esclusione e gerarchie, non solo è distante, ma in molti casi contraddice i principi fondamentali del femminismo. Una società più giusta e inclusiva richiede ben più di una figura simbolica: necessita di un impegno reale per trasformare le strutture che opprimono le donne e le altre categorie marginalizzate.


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