“Siamo contro il populismo per essere autenticamente popolari”. Sono parole di Marco Pannella che trovano una facile ricezione in un senso comune che conferisce alla parola “populismo” un’accezione negativa. Tanto da intimidire anche coloro che vorrebbero invece positivamente dichiarsi populisti e farne un manifesto politico. Non c’è invece alcuna remora nel dichiararsi “sovranisti”: su questo termine si creano gruppi politici nazionali e europei, antagonismi, e nascono anche associazioni, riviste, etc. come se la parola non fosse a sua volta, a ben vedere, una degenerazione di un concetto: sovranista sta a sovrano esattamente come populista sta a popolare. E in qualche modo il sovranismo è il contrario della sovranità.
La sovranità invece fa tutt’uno con la politica. Non si può immaginare una politica senza sovranità, checché ne dicano i teorici della fine della sovranità, che invece prendono in pieno l’equivoco: l’incapacità di vedere alle nuove forme di (trans) sovranità che sono necessarie per pensare la politica in un mondo globale, in quanto loro stessi nostalgici di un’idea di sovranità, che ormai possiamo associare a quella degenere di sovranismo.
In questo quadro dobbiamo leggere e provare a capire che cosa è avvenuto venerdì 26 novembre 2021 al Quirinale.
Il “Trattato tra la Repubblica Italiana e la Repubblica Francese, Per una cooperazione bilaterale rafforzata” rispetto all’attenzione pubblica, tutta concentrata sulle beghe del globalismo pret-a porter: pandemia, logistificazione delle migrazioni e dei vaccini, Italexit, Polexit, arriva come un evento alieno.
Due Presidenti - per la Repubblica Francese il Presidente della Repubblica Emmanuel Macron, per la Repubblica Italiana il Presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi - si incontrano, firmano, due pattuglie acrobatiche di aerei militari intrecciano fumi coi colori nazionali nel cielo di Roma.
Alzo gli occhi (Je me suis surpris parlant à deux voix, et me suis laissé aller à écrire ce qui venait) .
Ci sono diversi aspetti di questo incontro che mettono in guardia una certa sensibilità transnazionale in cui mi riconosco. Il primo è certamente il fatto che siamo di fronte a un accordo intergovernativo, che, come abbiamo imparato, è il segno di una modalità di relazione potenzialmente indifferente, non solo contraria ai principi di una sempre più forte unione federale, ma anche esempio insidioso e controverso del già raggiunto. E come commenteremmo se a Varsavia gli arei delle flotte nazionali di Polonia e Ungheria intrecciassero i colori di fumo delle rispettive bandiere?
Il secondo aspetto riguarda il linguaggio. Il linguaggio è, o può essere guerra. Se il linguaggio è poi propriamente intessuto di un lessico militare, difesa-sicurezza, la cosa è ancor più perturbante. Di fatto traspare un’alleanza militare: confini, difesa, sicurezza, e controllo dello spazio, anche nella sua modalità di cyberspazio, nell’ambiguità dell’obiettivo di “un’Europa democratica, unita e sovrana per rispondere alle sfide globali” attraverso la “volontà di rafforzare la difesa europea e la postura di deterrenza e di difesa dell’Alleanza atlantica e nella complementarità con la Nato.
Un’attitudine e una grandeur francese, Nazione che detiene e controlla autonomamente un arsenale nucleare, cui l’Italia si associa, e forse tempera.
Tuttavia credo che oltre al richiamo critico della coscienza si debba giudicare l’evento per alcuni spunti che possono essere oggetto di una riflessione, di un rilancio e di un riguardo del Trattato stesso come pungolo trasformativo degli assetti dell’Unione nonché per un rilancio del progetto di una libera Europa federale.
La cosa più interessante dal punto di vista di una vera politica dello spazio, è l’idea di una co-operazione permanente mediante un comitato strategico paritetico e la partecipazione di un membro di Governo di uno dei due Paesi, almeno una volta per trimestre e in alternanza, al Consiglio dei ministri dell’altro Paese; una strategia potenzialmente chiasmatica che nell’ambito dell’avvenire della cultura e della ricerca, ha già portato enormi benefici al patrimonio europeo.
Sovranità, nel senso più pieno e futuribile di una trans-sovranità è quanto mai il contrario del sovranismo in questo esperimento possibile. È l’idea di un diverso inframezzo inscritto nel dialogo che investe l’Europa stessa, per iniziare a parlare di Europa al plurale, piuttosto che di un grande Europa che raccolga tutti i soggetti stati sovrani.
Perché il territorio di cui dobbiamo essere sovrani, o trans-sovrani, non potrà che essere che il territorio dei diritti. Questo è il territorio che l’Europa deve difendere in modo militare, ovvero militante (e questa differenza ci ricorda come la nonviolenza non sia mero pacifismo, ma la più efficace forma di lotta). Allora ben venga l’equivoco “militare” se saremo capaci di trasformarlo, mettendo il noto fiore nella bocca del fucile, e con i nostri corpi, in differenza militante.
“Siamo contro il populismo per essere autenticamente popolari”.
Si inizia dall’asse Roma-Parigi (brutta parola “asse”)? Non credo sia il momento di fare del “benaltrismo”. Si inizi così, e si vada in piazza, in Africa, in Bosnia, in Medio-Oriente, nel Mediterraneo coi fiori del diritto, facendoli fiorire nelle bocche dei fucili.
Non saremo veramente sovrani, ovvero non avremo messo veramente la politica al centro, se non nel momento in cui saremo trans-sovrani, ossia, in grado di sanzionare effettivamente le violazioni dello Stato di diritto, e disposti in quanto cittadini “europei”, a scegliere un candidato francofono, lituanofono, tedescofono, perché più adatto a prendere decisioni per il nostro futuro, rispetto a un candidato uscito fuori da potentati partitocratici e cricche locali.
S’impone dunque una riforma dell’Unione, un nuovo processo costituente gli Stati Uniti nella ripresa della via, né facile e né sicura, tracciata dal Manifesto di Ventotene, che permetta la sua validazione anche – e attraverso - una ratifica popolare. Affermare dunque, e in tutte le sedi, una transizione verso lo Stato di diritto attraverso il diritto alla conoscenza, con-naissance, come piegava etimologicamente Marco Pannella, un nascere insieme, che ho sempre inteso come un vero e proprio diritto alla politica, nel dato di fatto della pluralità. “Il miracolo della libertà” – insegnava Arendt – “è racchiuso in questo saper cominciare”.