Lo scorso 3 novembre dodici leader di Paesi americani si sono ritrovati alla Casa Bianca per inaugurare l’APEP o Americas Partnership for Economic Prosperity. Oltre agli USA padroni di casa e al Canada a fare da consueto corollario, erano presenti anche Messico, Costa Rica, Repubblica Dominicana, Barbados, Panama per l’America centrale e Colombia, Ecuador, Peru, Cile e Uruguay per l’America meridionale.

Alcuni di questi sono Paesi con economie importanti, ma che già dipendono politicamente da Washington e comunque soltanto un terzo del totale degli Stati sovrani del continente. Non abbastanza per sopperire alla pesante assenza del Brasile e di altri Paesi del CELAC, la Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños, blocco che cerca una strada di sviluppo slegata dall’egemonia statunitense. Oltre al basso numero di partecipanti, ciò che sta affossando il progetto APEP è la sua vera finalità, che traspare facilmente dal velo della fumosa dichiarazione finale del vertice.

Da un lato, infatti, il testo del summit parla di concetti molto di moda e altrettanto vaghi nella loro realizzazione, come l’inclusività, la sostenibilità, la protezione dell’ambiente e delle minoranze (vengono elencate così tante categorie diverse da diventare una lista contraddittoria e discriminatoria di per sé).

Dall’altro, le poche proposte concrete evidenziano come gli USA intendano rafforzare la propria influenza sul “cortile di casa” latinoamericano cercando di tenere la Cina fuori dalla porta. Gli investimenti di Pechino stanno infatti minacciando la supremazia di Washington sulle infrastrutture e le dinamiche politiche di diversi Paesi, senza nemmeno scomodare gli avversarsi storici quali Cuba e il Venezuela.

L’amministrazione Biden prova così a sparare le sue ultime cartucce per attualizzare la dottrina Monroe agli anni venti del XXI secolo, ma apparentemente senza grande successo.