Il sintetico resoconto che segue prende un abbrivio da volo pindarico: che c'entra Giulio Cesare con il brigantaggio meridionale? Eppure un legame c'è. Non solo perché "tutto si tiene", ma anche perché un mito indistruttibile, nel mondo come in Italia, riporta alla figura fatale del "vir" che tutto risolve e inevitabilmente delude, colui che traina ma non controlla più coloro che lo avevano inizialmente seguito. Storicamente la splendida illusione non nasce con Cesare; ma egli fu romano, italiano (largamente intendendo); la sua influenza si esercitò in tutto il mondo allora conosciuto; la sua figura è stata studiata ovunque e dal suo nome derivano i sostantivi che indicano il comando, Kaiser, Zar, Scià.
E in Italia ancora si ragiona in questi termini. Così fu che, in nome del cesarismo plebiscitario, nella versione alternativa di Garibaldi o istituzionale di un re, si costruì un' Italia mai veramente stabilizzatasi come realtà storica, politica geografica; e le antiche debolezze d'impianto rischiano oggi di farla saltare.
Nato a Roma circa nel 100 avanti Cristo, Caio Giulio Cesare vantava origini divine e nobili, anche se crebbe nella famigerata Suburra; fu avvocato e letterato, di stile pulito e traducibile senza terrori eccessivi, dagli studenti moderni; conquistò l'Europa, strisce di Asia e Africa; ebbe mogli, figli naturali e uno adottivo, Bruto, che organizzò la congiura che lo portò alla morte nel 44 a.C; fu urbanista e inventò il giornalismo, istituendo gli "acta diurna", sorta di gazzetta ufficiale; ebbe fama di liberale nei costumi, perdonando tradimenti coniugali, dando spazio all'avanzare di un femminino meno arcaico e matronale, e si lasciò dietro pure la fama di bisessuale. Illuminato e crudele, innovatore e dittatore, se continuiamo di questo passo il "ma-anchismo" (preso a prestito dal romano Veltroni) rischia di obnubilarci: ci fermiamo qui.
Come spesso accade, attualmente si saldano due contrarietà differenti e il gioco è fatto. Ci spieghiamo meglio. Oggi la Lega demonizza il Risorgimento e denigra i suoi protagonisti, Garibaldi in testa, per ottenere il sospirato federalismo che puzza di secessione. D’altro canto anche settori della sinistra che si ispirano ad Antonio Gramsci e meridionalisti convinti, che tengono ben saldo il legame con statisti come Francesco Saverio Nitti e Giustino Fortunato, rimangono ostili ai peana all’eroe dei due mondi, ai Savoia e al nord “sfruttatore”, arrivando a rimpiangere l’organizzazione borbonica : il diretto discendente di questa casata oggi prosegue nel muro contro muro avverso la ex casa regnante italiana; d’altronde quest’ultima, con i comportamenti di Vittorio Emanuele IV ed Emanuele Filiberto, sembra fare di tutto per dargli ragione. Né le gesta dell’ultimo re in attività, Vittorio Emanuele III, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, contribuiscono alla sua buona reputazione.
Così succede che già, a suo tempo, le celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia fossero nate male, tra l’indifferenza e il rancore mai sopito, con il sovrappeso di una parte politica che strumentalizza a dovere.
Nostra intenzione non è difendere l’operato di nessuno; certo sarebbe interessante sapere se costoro sono contrari all’idea di stato nazionale; oppure, se cercano di distruggere l’Italia perché hanno in mente dell’altro.
Ci occupiamo innanzitutto di Peppino Garibaldi, con l'ovvia considerazione che uguale discredito accompagna gli altri ex "eroi" dell'Indipendenza, Camillo Benso Conte di Cavour e Giuseppe Mazzini: il primo considerato un furbo "piemunteise", un'astuta versione a mezzo tra Mazzarino e Richelieu, incaricato dai Savoia di incamerare e sfruttare il Mezzogiorno; il secondo un dandy genovese, un radical chic, in redingote, che a tempo perso e con i soldi di mammà giocava al rivoluzionario, fondando organizzazioni terroristiche - che tali erano considerati da molti, allora, queste aggregazioni tipo Giovine Italia e Giovine Europa. Si sa: tra eroismo e delinquenza, il confine è labile, dipende dalla convenienza di chi regge le fila.