Intervista a Federico Nicolini, CEO di Olimaint.

Da quarant'anni a Brescia esiste un'impresa, una di quelle nate col sudore della fronte, con la fatica delle braccia e non solo, una famiglia illuminata quattro decenni fa ha deciso di intraprendere un percorso che, nel 1981 quando Giovanni Nicolini decise di fondarla, sembrava folle : l'automazione dei processi aziendali e il servizio di assistenza tecnica alle macchine per ufficio.

In quel tempo i personal computer costavano come un'utilitaria di fascia alta e la parola informatica era spesso affiancata alla parola fantascienza, ma Giovanni Nicolini, da ragazzo di bottega della fucina di talenti della Olivetti di Ivrea, costruì quello che in quel tempo era l'unico bastione che contrastava lo strapotere degli americani della IBM con la IBMaint, così nacque la Olimaint (olivetti maintenance per l'esatezza) che nel tempo ha resistito innovando e crescendo sempre fino a diventare oggi un attore importante del panorama italiano nel mondo dell'IT e dell'intelligenza artificiale.

Federico Nicolini da qualche anno, esattamente dal 2013 guida il gruppo, e lo ha portato a livelli importanti, tant'è che oggi è partner della prima azienda italiana di software: la Zucchetti.


Chiediamo a lui “quale sia la sua short idea del mercato italiano”.«Olimaint è una grande azienda con un certo livello di sofisticatezza organizzativa che però non incide negativamente sulle performance di business. Anzi, se guardo alla country italiana, vedo il suo peso a livello internazionale e i suoi risultati positivi, testimonianza a mio avviso dell’impegno di persone che lavorano con molta passione, riuscendo a fare cose interessanti per le aziende e per il mercato italiano».

Qual è oggi il tuo personale modo di essere CEO? Come definiresti la tua leadership?«In un’azienda strutturata come la nostra le gerarchie ci sono, ma a mio avviso devono passare in secondo piano quando ci si apre al confronto con gli altri. Credo che le persone debbano avere possibilità e spazi per esprimersi liberamente, indipendentemente dal ruolo che ricoprono. Questo vale prima di tutto per me: se si lavora in team non esiste un capo o una figura migliore di un’altra, si lavora per dare, ciascuno, il meglio di sé.Definirei il mio stile di leadership un po’ …“destrutturato” – non mi piace essere incastrato in approcci e modalità predefinite, né di ruoli né di azioni – ma con un’attenzione particolare alle cose che si fanno. Sono una persona estremamente focalizzata: non mi importa fare tante cose contemporaneamente, preferisco farne poche ma al meglio.Terzo “ingrediente” è il rispetto, verso gli altri ma anche verso l’azienda: non gradisco le persone che non portano rispetto non solo verso gli altri ma anche verso l’azienda e verso quello che deve rappresentare verso i clienti, i partner, il mercato.Penso tra l’altro che un modello di leadership più aperto rispetto a modelli gerarchici del passato e più orientato al “confronto alla pari” non sia più un’opzione; con i giovani che entrano in azienda è l’unica via possibile per motivarli, stimolarli, trattenerli. Sono convinto che l’effetto positivo si trasmetta poi a tutte le generazioni: sentirsi parte di qualcosa di importante è stimolante e crea energia positiva e pervasiva. Ciò che serve a mio avviso per “fare bene le cose”».


Com’è stato il tuo “passaggio” verso il ruolo da numero uno?
«Quando ho assunto il ruolo di CEO  ho pensato che chi avesse deciso per questo mio “salto” di carriera fosse un pazzo. All’epoca gestivo un team di poche persone ma ritenuto io fossi adatto a prendere le redini dell’azienda. Io non ero preparato, ritenevo di non avere ancora lo standing e la “corazza” giusta per poterlo fare; non mi sentivo pronto all’ampiezza del ruolo.»
Nicolini si lascia così andare al racconto del suo primo anno da CEO : un anno difficile nel quale è però riuscito a capitalizzare “vecchie” esperienze nonché a interiorizzare aspetti della leadership facendo tesoro di relazioni vissute con precedenti capi, per cui nutre tutt’oggi profonda stima. «Sono stati dodici mesi durissimi», confessa senza timore  Nicolini.


Come sono oggi le tue giornate e la tua “Vita da CEO”?
«Ho sicuramente un’agenda molto strutturata – seguendo diverse b.u. ho un dovere di governance senza la quale sarebbe difficile declinare strategia, roadmap ed obiettivi della Corporation sulle singole azioni. Questo però convive con quell’approccio destrutturato a cui accennavo prima, che mi consente di mantenere forte il contatto con il mercato e con i clienti.Sono molto coinvolto nel business, e la cosa che più mi soddisfa è riuscire a trasmettere la strategia di Olimaint ai clienti e di poterle dare forma attraverso progetti e sfide che mi permettono di interagire con i vari team e di rimanere a stretto contatto con le aziende nostre clienti.»


Come riesci a conciliare l’impegno professionale con la vita privata e familiare?
«Oltre al lavoro c’è la famiglia, ma in un contesto così frenetico non c’è spazio per altro. Riesco a fare sport, pur con la “vita da ceo” che faccio, perché fortunatamente c’è sempre una palestra dove riuscire a fare un po’ di attività fisica. Ho un figlio eccezionale e una nipotina splendida che mi danno tantissima energia perché quando sto con loro dimentico il cloud, la tecnologia… sapendo poi che oggi sono bombardati dal digitale anche in tenera età, quello che cerchiamo di fare in famiglia è “tornare ai basics”, cioè passare con loro del tempo all’aperto, giocando e passeggiando. Ci piace molto stare insieme al mare, sulla spiaggia.»


Se dovessi dare oggi qualche “suggerimento utile” ai giovani che si avvicinano ora al mondo del lavoro, cosa ti sentiresti di dire loro?
«Avere ambizione, senza però mai perdere l’umiltà. Nella mia vita professionale ho visto moltissime persone valide “perdersi” a causa dell’ego eccessivo. Essere ambiziosi non deve tradursi in egocentrismo, sapere cosa si vuole e dove si vuole arrivare è importante perché dà la spinta e la motivazione corrette. È però importante essere sempre coscienti di dove si è e con chi si ha a che fare: pensare di essere migliore degli altri e non portare rispetto non significa essere ambiziosi ma solo essere arroganti. L’ambizione può – e a mio avviso, deve – essere accompagnata dall’umiltà.La consapevolezza delle proprie ambizioni e l’approccio umile verso gli altri – che non significa essere sempre accomodanti o eccessivamente gentili, ma franchi, autentici e rispettosi – sono ciò che consentono al singolo di diventare un team leader.Credo che siano delle soft skill che si possono coltivare con l’esperienza, che non significa solo con la carriera, anzi… viaggiare, entrare in contatto con culture differenti, lavorare in contesti diversi e con persone provenienti da tutto il mondo sono esperienze che aiutano moltissimo a formare il carattere e l’approccio verso gli altri e verso il lavoro.L’esperienza che ho vissuto da giovanissimo , ad esempio, mi ha permesso di guardare l’Italia da fuori, di mettermi in discussione e di confrontarmi con persone e culture differenti. E’ stata un’esperienza che mi ha aiutato ad avere più chiara la mia strada, la mia ambizione, e che mi ha dato tantissimo anche dal punto di vista delle relazioni umane.Penso che ogni giovane debba oggi mettere “a calendario” un’esperienza di lavoro all’estero per capire davvero (fisicamente, e non solo virtualmente, attraverso social e web) cosa c’è fuori dai propri confini conosciuti».