Esistono vittime e vittime, di crimini. Alcune trascolorano presto e finiscono nella terra dei dimenticati. Altre rimangono nell’inquadratura fissa dei media e, di conseguenza, sulla scena proiettata dalle nostre menti; talora ci restano da quando vengono trovate morte, talaltra perché ripescate a distanza di anni. Esse sono dunque “utili”: a chi ne tratta le storie, a chi le ascolta, a tutti noi, compresi coloro che snobbano la televisione e leggono solo dalla critica della ragion pura in su.

Lidia Macchi, da Varese, quartiere Casbeno, nata nel 1966, ispira, dopo aver ascoltato il racconto della sua breve vita, un aggettivo su tutti: attiva. La descrivono studiosa, religiosa, scout, impegnata in Comunione e Liberazione e nel volontariato, in contatto con l’Africa, sportiva, scrittrice in erba, amante della poesia, del misticismo, della filosofia, compresa quella personale che la portava a riflessioni di estrema profondità, figlia devota, irreprensibile, molti amici, due sereni genitori, una sorella a lei d’età vicina, e un fratellino appena nato, da cui la separava un ventennio, e la impegnava nel ruolo da vice madre. Non aveva spazi vuoti, Lidia, se non di quel concavo pensiero che si libera per raccogliere il mondo, non già perché non sappia che farsene.

Le feste di Natale e capodanno del 1986 sono le prime che la ragazza non trascorre con i suoi, ognuno per conto proprio in montagna, per poi ritrovarsi, verso l’Epifania, tutti insieme in famiglia. Nel frattempo un’amica di lei ha avuto un incidente e si trova ricoverata all’ospedale di Cittiglio; Lidia, sodale premurosa, decide di andare a trovarla e qui partono già i primi interrogativi, poiché la vedono alla stazione, mentre cerca un treno per quel paese, ma sembrerebbe non averlo trovato, nonostante le frequenti corse, e torna indietro, ma, sorpresa: il 5 gennaio, e siamo nel 1987, i genitori col neonato fratello sono già di ritorno. Papà Giorgio si offre di prestarle la sua Panda rossa e le consegna anche diecimila lire per fare benzina, visto che la spia marca riserva: è tardi, forse, per trovare un distributore aperto e i self non sono ancora molti, forse per questo i soldi rimarranno in una tasca dei jeans indossati dalla poveretta.

Dopo aver salutato l’amica ferita al nosocomio, Lidia se ne va, ma a casa per cena non si presenta e scattano le ricerche di prima mattina. Squadroni di amici e conoscenti di Cielle si sguinzagliano per le campagne circostanti, finché un terzetto la trova il 7, in un recesso boschivo adibito a discarica, frequentato da prostitute e crocevia di spaccio. La Panda è accostata un po’ di traverso e a lato, Lidia è prona, fuori, ricoperta da un cartone.

L’autopsia rileva 29 fendenti, mentre negli articoli si fa notare che il corpo sembrava rivestito malamente: i pantaloni dentro gli stivali ( look non abituale per lei) e collant alla rovescia. Un  accento grave si posa sulla violenza sessuale subita, che avrebbe coinciso col primo rapporto sessuale della cattolicissima vittima, illibata. Il sangue in terra e nell’abitacolo della Panda è poco, tracce: dunque si ritiene che lo stupro e il delitto siano avvenuti altrove, e qualcuno, con lei in auto, o in più persone, in parte su un’altra vettura, l’abbiano trasportata in quel viottolo.

Esibiamo subito la nostra prima domanda, che non ha mai trovato risposta: per quale motivo al mondo scaricare il cadavere fuori dall’utilitaria? Comunque sia andata, perché perdere tempo in questa manovra ininfluente, atteso che il cartone nemmeno la copriva tutta e il corpo era in vista, per chi avesse percorso quel tratto? Che poi, a ben guardare, era sì l’accesso ad una cava e al cementificio che ne attingeva, ma vi si dipartiva un sentieruccio che conduceva,  dritti e in breve, proprio alla stazione.

Si pensa subito al buio parcheggio dell’ospedale, bazzicato dai tossici, e qualcuno parlerà di un giovanotto molesto che scatarra chiedendo soldi, ma nessuno si farà avanti, nonostante un abbozzo di identikit. Si scandaglia la limpida e corta esistenza di Lidia, senza ovviamente trovare nulla che non siano tranquille frequentazioni cielline, perlopiù. Vero è che la nonna, presente in casa, parlò di una giornata, quella del cinque gennaio, trascorsa dalla nipote a studiare ( era iscritta a giurisprudenza), ma interrotta da alcune telefonate, tuttavia nulla emerse e d’altronde, all’epoca, era normale che ci si parlasse al telefono fisso, magari per salutarsi o prendere accordi: oggi non si riesce più a pensare a una vita senza telefonini, ma allora così funzionava.

Ci sarebbero anche alcuni scritti della giovane, con enigmatici riferimenti a tormenti esistenziali e amori impossibili, ma non possiamo annettervi chissà quale spessore, perché sono stati reinterpretati molto tempo dopo, quando il caso venne riaperto con un indagato.

Entrò in pista il riabilitato Enzo Tortora il quale, durante l’ultimo scorcio della sua carriera fino alla morte nel 1988, si era sensibilizzato alle questioni criminali e pregò pubblicamente il colpevole di costituirsi, senza successo.

Secondo alcuni osservatori poco amici della magistratura, si volle scavare morbosamente nel panorama religioso cui la vittima apparteneva, fino a individuare come sospetto un sacerdote (poi scagionato) e irritare la Curia, che provò a ricusare il procuratore in carica, però con una new entry: il DNA. Negli anni ottanta all’avanguardia non erano gli USA, ma il Regno Unito, dove finirono i reperti biologici, che  ci stettero parecchio, causa i meno sofisticati strumenti a disposizione. Sotto lente finì anche un non meglio precisato “tecnico”, gravemente malato, che volle sottoporsi a tutti i test possibili, per morire da innocente, cosa che a quanto pare gli riuscì, ma resta una fitta nebbia sul nome.

Le piste si raffreddano, fino al 1993, quando si proverà a ripescare nientedimeno che l’omicidio della ventiquattrenne Simonetta Ferrero, una funzionaria Montedison rinvenuta orrendamente  accoltellata nei bagni dell’Università Cattolica di Milano, nel luglio del 1971; e per un poco si volle insistere su un labile collegamento a un altro prete, o monsignore, con fama di molestatore – e dopo che a trovare il corpo era stato un seminarista: ma d’altro canto, alla Cattolica, non era strano che girassero degli ecclesiastici. Tutto finì nel nulla.

Nel 2009, a Cocquio Trevisago, sempre in provincia di Varese, viene massacrata un’anziana sola abbiente, Carla Molinari, ritrovata con le mani mozzate; per l’omicidio verrà condannato l’imbianchino Giuseppe Piccolomo, su cui pesava anche il sospetto di uxoricidio ( accusato anche dalle figlie che poco lo amano). Riguardo alla morte, nell’incendio della sua auto, della prima moglie, e madre delle ragazze, ci pare che non  siano esistite praticamente indagini; sul delitto Molinari, parlerebbero le telecamere, anche se la storia delle cicche di sigarette ( incriminanti per chi ricorda il caso) rimane bislacca e in definitiva in casa non fu rubato nulla del molto che pure c’era, ma Piccolomo è il soggetto che è, per cui si vorrà coinvolgerlo anche riguardo a Lidia, ma inutilmente.

Nel frattempo a casa Macchi arrivavano lettere, ma l’abbiamo saputo dopo, e segnatamente dobbiamo segnalarne due: quella di una sedicente sensitiva, che allude a un “collega” ciellino di Lidia (tanto per cambiare) e “In morte di un’amica”, sbattuta in prima pagina ormai da anni. Sono entrambe scritte a mano, ma l’attenzione grafologica si appunterà solo sulla seconda, a partire dal 2014 allorché, durante un programma a tema, una ragazza del giro, Patrizia, ora cinquantenne o giù di lì, credette di riconoscere la scrittura e la prosodia mentale di un altro CL, che venne pertanto rimesso in pista.

Si tratta di Stefano Binda, da Brebbia nel varesotto, classe 1967; quanto a biografia al momento dell’arresto, non aveva tutte le carte in regola, in effetti. Chi lo aveva conosciuto ne forniva un ritratto a tinte alternate, forti e deboli, abbaglianti e grigie: eroinomane già prima del delitto, ma di raffinata intelligenza, anche se non coronata da una laurea cui aveva rinunciato, disoccupato, ma amante di gite e vacanze, almeno in gioventù, forse foraggiato da madre e sorella conviventi; in seguito, anche a suo dire, collaboratore in Provincia, ( associazionismo cattolico di supporto a progetti? Lui li definisce “realtà”). Al processo, crede bene di presentarsi con un pizzetto luciferino alla Roberto D’agostino in biondo, che non lo fa apparire rassicurante, così smagrito, ma tutto sommato lo rende intrigante.

Egli non si sottrae agli sguardi, anzi cerca quello della sorella di Lidia, la supplica di credere alla sua innocenza e rivendica il diritto a non ricordarsi per filo e per segno  fatti di trent’anni prima. Nell’immediato era stato persona di interesse, poi, nel 2000, gli stessi inquirenti avevano disdegnato il prosieguo delle indagini, tanto che i reperti andarono distrutti o perduti (qualcuno parla di un nascondiglio nella cassaforte di un PM). L’alibi dell’uomo era una vacanza in montagna, a Pragelato, Piemonte, con testimoni che, come al solito, non concorderanno: ma qui, come spesso accade, il vero film è la guerra in aula, tra avvocati che ripescano vecchie agende con pagine forse strappate, periti di cui una testata mette in dubbio perfino l’accredito e le competenze ( si tratta di un nome, grafologa dell’accusa, che appare anche nel processo a Pietro Pacciani),  un testo di Cesare Pavese che imputato e vittima avrebbero condiviso, la citata Patrizia, sospettata di aver riacceso il caso per una vendetta contro Stefano, che anni prima l’aveva respinta ( ne testimoniò anche un ex fidanzato, non molto ascoltato all’inizio).

Si fa vivo un avvocato, a vantare la “confessione” del vero assassino, contenuta in una lettera il cui autore egli, per serbare il segreto professionale, non può rivelare: incredulità generale, sussurri e grida sull’atteggiamento del professionista stile “ parlo per un amico”…

In primo grado Binda viene condannato. In appello, nonostante la difesa provi a ricusare la Corte, e l’accorata arringa della PM, che aveva tentato in extremis una perizia psichiatrica ( rifiutata) e invocherà giustizia per la “vergine” uccisa, visto che tirava aria di assoluzione, essa arriverà. Il test del DNA, negli anni evolutosi, che aveva depennato dalla lista Piccolomo, farà il suo lavoro anche a favore di Stefano. D’altronde, il materiale residuo era di infima qualità e quantità e nemmeno i maggiori genetisti italiani potranno dire altro che “sconosciuto”, anzi “ignoto”.

La famiglia Macchi è sconsolata e indignata ma, come afferma circa Stefano Binda, il dolore non rende depositari della verità. I parenti delle vittime hanno sempre ragione, quando accusano? I fatti risponderebbero di no. La verità processuale, per ora, è stata sentenziata, si attende la Cassazione. E noi siamo sempre a corto del vero.