La premessa è d'obbligo. Su alcuni punti non abbiamo fonti specifiche, tranne interviste scritte o televisive, peraltro rintracciabili. Quanto a ciò che l'attore stesso ha raccontato o scritto di sé, tra le sue affermazioni, ce n'è una che ripeteva spesso, ovvero che le biografie sono quasi tutte inventate, almeno in gran percentuale, altrimenti sarebbero noiosissime. Quindi, ammantiamo tutto di un sano dubbio.

Noi, che parliamo, chi siamo? In genere, io e le persone ( genovesi) che hanno condiviso con me impressioni e ricordi.

"Se qualcuno vi dice che i soldi non contano, non dategli retta, vi vuole solo escludere dalla grande torta". Forse non erano queste le esatte parole, ma il senso preciso c'è. E in questa affermazione, espressa col consueto rude cipiglio, in tempi in cui non lo aveva ancora toccato un pizzico di bonarietà senile, si trova molto di Paolo Villaggio, nato alla fine del 1932, scomparso nel luglio 2017.

La sua biografia è nota, ne riprendiamo solo qualche sprazzo. Apparteneva a una famiglia della buona borghesia genovese, ma era nato a San Fruttuoso, in casa. Detta così, non si capisce. E' un quartiere che chi scrive conosce bene, ci ha trascorso la vita. " Popolare agiato", così esso veniva configurato nel libro di testo di geografia regionale alla facoltà di lettere di Genova, firmato dalla professoressa gorgone Clotilde Giuliani, una castigamatti "molto umana", diremmo per introdurci al mondo dell'attore, ovvero una aguzzina galattica...(piaccia o no, non riusciamo a staccarci da aggettivi che proprio Paolo ha introdotto nel lessico italiano).

Ebbene, la ..., insomma, Clotilde, che intendeva con quegli aggettivi? San Fruttuoso nasce da una valle degli orti, poi ricoperta dall'edilizia selvaggia degli anni cinquanta/sessanta, ma, quando vi nacque il futuro Fantozzi, ancora ingentilita da prati, radure, villini, e la magione padronale, Villa Imperiale. Riportiamo, per comodità, dalla solita WIKI.

"A far edificare la magione, nei primi anni del Cinquecento, fu Lorenzo Cattaneo...il quale intendeva...costituire una propria residenza che fosse in linea con le necessità di rappresentanza della famiglia. Fu sede, al tempo della Repubblica di Genova, di ricevimenti e banchetti per imperatori, sovrani e nobili qui accolti dal doge prima dell'ingresso ufficiale in città.

Il palazzo fu inaugurato, di fatto, nel 1502, da re Luigi XII di Francia, giunto in visita a Genova. Si racconta che la carrozza del sovrano, accompagnata da un lungo corteo con la nobiltà locale, sfilasse con magnificenza - e salutata dalla folla festante - sotto la volta dell'atrio portificato del palazzo, decorato con peducci scolpiti in pietra nera (che da allora recano lo stemma con il giglio di Francia) e arricchito nell'impiantito e nei finimenti da pesanti lastre di ardesia.

Nel XVII secolo il palazzo passò in proprietà alla famiglia Salvago e poi alla famiglia Imperiale - di cui l'edificio conserva ancora il nome - che la tenne fino agli anni venti del Novecento. Fu infine acquisita dal Comune.

Villa Imperiale ha, sia pure di riflesso, un importante significato storico per i genovesi. Lungo le mura che la circondano dal lato di ponente sale una stretta crêuza che conduce alla vicina Villa Migone, al tempo residenza del cardinale Pietro Boetto, in cui la sera del 24 aprile 1945 il generale Günter Meinhold, comandante in capo delle truppe tedesche di stanza a Genova, firmò l'atto di resa nelle mani dello stesso Boetto e del comandante partigiano Remo Scappini, che pose fine alla seconda guerra mondiale nel capoluogo ligure.
Naturalmente sappiamo tutti cos'è la "creuza". No? Un viottolo, con pavimentazione a sassi di mare ai lati e mattoni rossi al centro, tipicamente ligure, altrimenti detto "mattonata".

Pare che Paolo Villaggio fosse nato proprio in uno stabile adiacente questa proprietà, poi parco comunale, in effetti circondato da costruzioni definite " d'epoca", di una certa pretenziosità. Il quartiere, nonostante le peripezie sociali dei decenni a venire, ha resistito al rischio banlieu, almeno nella sua parte inferiore più vicina al centro, rimanendo abitato da una classe operaia e piccolo borghese, e mai invaso da una immigrazione "aggressiva". Tradotto in termini politici, non ha mai suscitato l'interesse di alcuna parte politica abbia amministrato la Lanterna.

Tuttavia, sarà stata la nascita vicino al luogo dove un fatto così importante della storia recente si era svolto, Villaggio si porterà sempre dietro la fama di comunista, giungendo a realizzare, già famoso,  uno spot a favore di del lillipuziano partito di Democrazia Proletaria, iniziativa che nella maturità pare abbia rivisitato come bravata. Tale inclinazione ideologica, in ogni caso,  egli avallò quasi fino alla fine dei suoi giorni: quando, come molti colleghi dello spettacolo, riverserà la sua fiducia sul concittadino e collega Beppe Grillo, facendo a tempo a rimanerne deluso, ma non a vederlo al governo: questa, gli è stata risparmiata.

Si ricordano, sempre ormai in picchiata verso gli ottanta, delle esternazioni discutibili sui meridionali, ma pure pacate risposte a rappresentati di Lega e Forza Italia ( presenti, Borghezio che provava a reagire ma ammutolì, Salvini giovane e fremente, Santanché con sorriso ebete di chi non può inveire), con amabili paragoni tra i razzisti nostrani e Hitler. Era ormai un grande vecchio, non lo si poteva contraddire. Altrettanto simpaticamente rispose a un giornalista che gli chiedeva cosa pensasse dell'inasprimento portato nel pubblico impiego dalle norme volute dal ministro Brunetta. Lapidario, Paolo ribatté: non conosce l'avversario.

Che piacessero o meno le sue alzate, secondo le idee di chi lo ascoltava, le sue reazioni erano sempre temibili; lui stesso, nell'autobiografia, si definiva già nel titolo " un pezzo di m...."; dunque un'altra etichetta gli affibbiavano talora, che tradurremo semplicemente col gergo di mia madre: " è un maleducato". Negli anni settanta, appena afferrato il successo con la esse maiuscola, dichiarò a un giornalista della televisione svizzera che comici duraturi, non se ne sarebbero più veduti, in Italia, al massimo qualcuno con la scadenza di cinque anni, tipo conserva in barattolo: ma fu smentito dai fatti, per fortuna. In un'occasione avvertì che chi adottava bambini in Africa era individuo di cui diffidare; un ingiusto giudizio, ma un astuto paradosso: parlate sempre male di chi fa del bene, fate i"cattivisti",  per smontare le accuse dell'avversario.

Di famiglia "meticcia" - lui parlava di un avo paterno trovatello arrivato dalla Sicilia, ma anche la madre veneta aveva un nonno siculo - non vantava quindi né i magnanimi lombi, né la purezza della razza quantomeno nordica dell'amico d'infanzia Fabrizio De André, ma era genovese quanto lo si può essere se si è nati,  o almeno cresciuti e formati, in quella benedetta città. Lo era Bruno Lauzi, nato all'Asmara da famiglia ebraica, lo è Gino Paoli, nato a Monfalcone, perfino il piemontesissimo "mandrogno" Luigi Tenco alla fine fu agglutinato, e si formò la scuola dei cantautori genovesi eccetera, che al momento non ci riguarda. Inoltre, la faccia da genovese, Villaggio ce l'aveva tutta. Leggetevi "Tango",  di Mauro Gaggero e capirete che significa.

Insomma, Villaggio aderiva in toto all'archetipo " son zeneize, riso ræo, strenzo i denti e parlo ciæo = Sono genoveserido raramentestringo i denti e parlo chiaramente, come si autoproclama il cittadino del capoluogo ligure. A questo punto bisognerebbe parlare dei maschi autoctoni, argomento sempre a rischio, ma la buttiamo lì, sempre pensando a Paolo: nessuno sguardo compiaciuto ed esplicito da emilian/ romagnolo o fischio alla capitolina o tampinamento esplicito alla meridionale: il genovese finge di nemmen guardare una donna, ma la squadra con l'occhio di sbieco, da cima a fondo.

L'accento. Fantozzi/Villaggio ha una decisa cadenza genovese, non c'è dubbio, ma è impostata sul terreno originale di una nascita "alta", come si notò in di De André, allorquando il cantautore produsse un disco in dialetto: non c'è nulla di "dirty", è pulito anche se tira giù una volgarità. Nella vita l'attore lo ostentava a volte nelle interviste, ma di norma aveva un eloquio asciutto, con leggera inflessione.

Paolo Villaggio, al contrario di suo fratello docente alla normale di Pisa, non andò oltre il diploma al liceo classico D'oria, frequentato dai vip genovesi, dove, raccontava, era stato eletto due volte come il più brutto dell'istituto. Chissà se è vera, anche questa. Certamente in quel luogo di suprema boria, l'incubatore della classe dirigente locale a cui nessuna scuola nella galassia può mai paragonarsi, Paolo imparò, se già non l'aveva in animo, quella stronzaggine di cui si vantava titolare; e senza dubbio realizzò di non piacersi fisicamente: un problema sottovalutato da tutte le scuole di psichiatria da Papetee e Paperopoli, che trascina complessi e ombrosità a carattere vendicativo o, nei casi migliori, fa da stimolo a desideri di rivalsa che alcuni realizzano. Pare proprio questo il caso.

La sua famiglia, scontenta di quel figlio non ribelle, ma vitellone, lo sistemò all'Italsider come impiegato: angolo privilegiato per studiare il suo personaggio feticcio, hanno sempre detto, anche se, forse, l'idea non fu sua, ma il suggerimento venne da altri  e Villaggio, negli anni, ha buttato acqua sul fuoco. Lo fece perché: primo, non voleva che qualcuno lo  identificasse nel ragioniere sfigato; secondo, perché, da sedicente simpatizzante del comunismo extraparlamentare, non era carino descrivere così dei lavoratori dipendenti, che infatti, in seguito, disegnerà piuttosto come i veri rivoluzionari italiani, coloro che provano a mandare a monte i perversi obiettivi dirigenziali col boicottaggio sistematico e la resistenza passiva, sotto il velo di una piaggeria strafottente che i capi ottusi non comprendono. Purtroppo, diciamo noi, spesso è piaggeria vera.

Paolo Villaggio dunque si sbatte in giro, si esibisce sulle navi con De André ( ma quanti famosi arrivano dall'intrattenimento in crociera?), scrive ( sicuramente in orario di lavoro) e insomma, in quel modo misterioso per noi plebei, ché non si capisce mai come  i futuri VIP abbiano veleggiatoo da una bella cosina all'altra senza motivi particolari, si vede che erano proprio bravi - Villaggio prima collabora con la storia di Fantozzi a puntate sull'Europeo, un abbozzo della futura saga, facendo impennare le vendite, poi ci fa su un libro da un milione e mezzo di copie, infine uscirà il film e sarà apoteosi.

In realtà il grande pubblico lo aveva notato verso la fine degli anni sessanta in "Quelli della domenica", nella parte dello strambo professor Kranz: una comicità diversa, aggressiva, col comédien che gira tra il pubblico e lo "stracciona", invece di blandirlo. Ero bambina e guardavo il programma. Gradivo tutti o quasi, tranne lui. Non mi faceva proprio ridere né divertire, come, al limite, Cochi e Renato, altrettanto  innovativi e surreali. Tuttavia Villaggio stimolò in me la voglia di dargli una seconda possibilità, di talché, qualche anno dopo, convinsi mio padre a portarmi al cinema ( unica volta nella vita) per vedere "Senza famiglia", commedia agrodolce girata insieme a Gassman , dove tuttavia a Paolo veniva offerto lo spazio sufficiente a farsi notare; seguì, tra gli altri,  "Vado, sistemo l'America e torno", altra commedia amara, tutt'altro che futile, nella quale Villaggio imbastisce un ruolo che si ritaglierà spesso in film commedia che non siano quelli di Fantozzi: figure defilate, sottoposte, che si imbattono nel male o nel grottesco, e lo sublimano con la comicità, la malinconia,  il paradosso.

Continua...

 


(Foto di Giuseppe Nespeca da Primo gruppo su Paolo Villaggio, FB)