Subito prima delle festività natalizie, il Dipartimento di Stato americano aveva comunicato la sua ultima iniziativa territoriale, che sta ricevendo le attenzioni degli altri governi interessati.

Si tratta della rivendicazioni di un’area pari a circa un milione di chilometri quadrati di fondale oceanico, che va a costituire quella che in gergo tecnico è la “piattaforma continentale estesa” o ECS, che è situata oltre le 200 miglia nautiche dalla costa.

Nel caso americano, questa area è in gran parte sotto il Mar Glaciale Artico, e nella parte restante al largo della costa atlantica da un lato e di quella pacifica dall’altro. Con questa mossa unilaterale, l’amministrazione Biden apre nuovi fronti di tensione persino con i Paesi storicamente alleati, Canada in primis. Dunque, i problemi sono adesso di due tipi: il fatto che le aree rivendicate dagli USA si sovrappongono a quelle di pertinenza di altri Paesi e il fatto che Washington non abbia mai firmato né tanto meno ratificato la cosiddetta Convenzione UNCLOS di Montego Bay, cioè la Convenzione ONU sul diritto del mare del 1982.

In altre parole, alle attuali rivendicazioni americane mancano basi giuridiche che siano ufficialmente riconosciute e accettate dal resto dei Paesi del mondo, che in stragrande maggioranza hanno ratificato la Convenzione; lo ha fatto persino l’Unione Europea come organismo a sé stante rispetto ai suoi Stati membri, che a loro volta hanno firmato e ratificato).

Se dal Canada fanno sapere di voler collaborare a una soluzione, pur con qualche riserva, la Russia ha reagito in maniera diffidente: questo annuncio americano, essendo infatti totalmente unilaterale e andando a toccare zone di evidente importanza strategica - sebbene Washington insista sulle finalità ecologiche e geografiche della decisione - non fa altro che aumentare la tensione globale e intaccare altre sfere di cooperazione internazionale.