In tempi di conflitto, la narrazione diventa uno strumento potente quanto le armi sul campo di battaglia. Negli ultimi decenni, Israele ha affinato un sistema di gestione dell'informazione che non solo promuove la propaganda istituzionale, ma reprime anche le voci critiche, incluse quelle provenienti dai media indipendenti e internazionali.
La gestione della comunicazione da parte dello Stato ebraico è caratterizzata da un attento controllo sulla narrazione pubblica. Attraverso strategie coordinate, il governo promuove una visione degli eventi che legittima le sue azioni militari e politiche, presentandole come necessarie per la sicurezza nazionale e la sopravvivenza dello Stato. Questo approccio si traduce in una rappresentazione della realtà che enfatizza la minaccia del terrorismo e oscura come è costretta a vivere la popolazione palestinese nei Territori occupati.
La propaganda non si limita alla semplice comunicazione istituzionale. Si estende anche all'utilizzo dei media mainstream israeliani, che nella quasi totalità dei casi si allineano alla narrativa governativa, soprattutto durante i conflitti. Tale dinamica limita la varietà di punti di vista accessibili all'opinione pubblica israeliana e non solo, contribuendo a creare una percezione uniforme e giustificativa delle azioni dello Stato.
In parallelo alla promozione della propaganda, Israele reprime le voci critiche, siano esse interne o esterne. L'ultima decisione del governo di interrompere i legami con il quotidiano israeliano Haaretz ne è un chiaro esempio.
Il giornale, noto per la sua posizione critica nei confronti di Netanyahu e dei suoi ministri, è stato accusato in una risoluzione di danneggiare la legittimità dello Stato e di sostenere il terrorismo, a seguito di articoli e dichiarazioni del suo editore, Amos Schocken.
La risoluzione è stata approvata con il sostegno del primo ministro Benjamin Netanyahu. L'ultima goccia che ha scatenato la reazione del governo di Tel Aviv è stata una conferenza a Londra, durante la quale Schocken ha accusato il governo Netanyahu di imporre ai palestinesi un "crudele regime di apartheid", aggiungendo che "ignora i costi sostenuti per difendere gli insediamenti mentre [IDF e coloni] si scontrano con i combattenti per la libertà palestinese che Israele definisce terroristi". A seguito delle proteste suscitate dalle sue dichiarazioni, Schocken ha dovuto poi affermare che il suo riferimento ai combattenti per la libertà palestinese non faceva riferimento ad Hamas.
Questo modus operandi non si limita ai soli confini israeliani. Durante il conflitto in corso a Gaza, decine di giornalisti palestinesi sono stati uccisi, tra cui professionisti di emittenti come Al Jazeera. Gli uffici di Al Jazeera in Israele e nella Cisgiordania occupata sono stati chiusi, nel tentativo di limitare la possibilità di documentare e riportare le realtà sul terreno.
La combinazione tra propaganda e repressione genera un effetto distorsivo anche all'interno della società israeliana. Molti cittadini hanno accesso esclusivamente a informazioni filtrate dal governo o da media allineati, creando una percezione della realtà che omette le complessità del conflitto e delle condizioni di vita dei palestinesi. Come ha osservato Gideon Levy, editorialista di Haaretz, i media israeliani durante il conflitto tendono a presentare una visione unilaterale che ignora le sofferenze e le devastazioni vissute dai palestinesi a Gaza.
Questa mancanza di pluralismo informativo priva il pubblico di una comprensione completa degli eventi, rendendo più facile il sostegno a politiche aggressive e la demonizzazione delle voci dissenzienti.
Il controllo dell'informazione da parte di Israele ha implicazioni anche a livello globale. La narrativa promossa dallo Stato viene amplificata attraverso alleati internazionali, reti diplomatiche e media globali, mentre le critiche vengono sistematicamente etichettate come antisemitismo o sostegno al terrorismo. Questo rende difficile per i media internazionali raccontare la realtà senza rischiare ritorsioni o perdita di credibilità.
Al contempo, le organizzazioni per i diritti umani denunciano che la repressione della stampa e le minacce ai giornalisti rappresentano una violazione della libertà di informazione e dei principi democratici. Tuttavia, le pressioni politiche e diplomatiche limitano spesso una risposta efficace da parte della comunità internazionale.
La libertà di stampa non è solo un diritto, ma un pilastro della democrazia. Proteggerla è fondamentale per evitare che il controllo statale sull'informazione si traduca in un monopolio della verità, a discapito della giustizia e della pace. Eppure...