C'è una storia atroce e delicata (forse addirittura troppo per essere raccontata) che pochi (almeno lontano da Parma) ricordano.
Lui si chiamava Fabio Scovenna, lei Veronica Biancardi.
Tredici anni lei, quattordici lui.
Erano innamorati – se non l'uno dell'altra, certo della poesia, e della vita. 
Lei morì di leucemia. Lui un mese dopo si suicidò chiedendo di essere sepolto accanto a lei (come poi fu). Chissà se qualcuno porta ancora fiori su quelle lapidi (se ci sono ancora). 
Ciò che stupisce nei loro versi è l'assoluta assenza di esibizionismo, enfasi, retorica. Questo in un'età in cui l'emulazione dei Grandi porta proprio non tanto all'ingenuità, quanto – quel che è peggio –  a stentati e maldestri sfoggi di letterarietà.
Lei ebbe gli elogi di Bevilacqua, fu ritratta da Aligi Sassu, musicata da Lorin Maazel. Ma non sembrava dare a tutto ciò grande importanza. «È uno scherzo», annotava sul diario. «Il mondo è uno scherzo, la vita è uno scherzo, tutto è uno scherzo. Anche quello che sto dicendo è uno scherzo». 

«Tutto nel mondo è burla», canta Falstaff. Chissà che questo verdiano ilare distacco, questo sovrano sorriso, non siano insiti per natura nello spirito parmense. 
Le foto la ritraggono con un obliquo basco purpureo da artista francese, che mascherava i segni delle cure (forse all'epoca ancor più inutilmente e ottusamente devastanti di quelle odierne, non già per volontà dei medici, ma per l'inflessibile rigore di protocolli farmaceutici forse non meno feroci del Fato). 
Quasi volesse farsi beffe della morte che in fondo intuiva non lontana. «Se non sapete curarmi, lasciatemi morire», diceva ai medici.
«La primavera è delicata nel porgerti giorni tristi. La sua briosa giovinezza fa fremere le gemme e la forsizia e pullulare i polverosi biancospini». Cose come questa una tredicenne era capace di scrivere. 
«Sono stanca», furono le sue ultime parole. 
A lui fu dedicato un premio di poesia nella cui giuria sedettero Bertolucci, Giudici, la Spaziani.
Pare non ne resti traccia. A volte neppure la grande storia (quelle rare volte che avverte questa sollecitudine) riesce a salvare dalla voragine del nulla le piccole fragili tragedie (investite solo per qualche mese dalla luce) di noi persone comuni.
A lei hanno intitolato una viuzza che amava, in cui la primavera pare mostrare ancor più intensi i colori che ne addolcivano le sofferenze.
In rete i collegamenti agli articoli locali sulla cerimonia sembrano spariti. Broken links. Franti legami con una minuta e periferica memoria storica. Il che induce a riflettere su quanto fragile e labile (ancor più degli orologi sciolti di Dalì) sia la “persistenza della memoria” proprio in quegli ambienti digitali cui fiduciosamente la demandiamo. 

Oggi la televisione pare trasformare istantaneamente in frastuono o fango, per una specie di alchimia al contrario, tutto ciò che tocca. Il servizio che si trova in rete (le uniche immagini filmate che restano di lei) mostra davvero un'altra epoca, anche se è passato solo un quarantennio. Si cercherebbero invano nei tredicenni di oggi (e forse non solo nei tredicenni) quella compostezza di atteggiamenti e di vestiario e quella proprietà di linguaggio. 
Degli anni Ottanta era ancora l'alba. Il decennio forse più volgare nella storia dell'umanità non aveva ancora lasciato cadere tutti i suoi frutti marci. La nostra non è epoca che tolleri quei “sentimenti delicati” che una compagna di scuola le riconosceva.
Lei diceva di amare l'Ecclesiaste. Da quel libro della Bibbia aveva certo imparato che «c'è un tempo per nascere e uno per morire, un tempo per piangere e uno per cantare, un tempo per dolersi e uno per danzare, un tempo per parlare e uno per tacere». Gli stessi ipnotici parallelismi negli ultimi versi scritti pochi giorni prima di morire, forse i suoi più maturi, in cui già si intravede la poetessa che sarebbe stata. «Quello che va ritorna. Ci sarà la vita a far rinascere e rivivere». 
Gli stessi speculari parallelismi in uno dei suoi dipinti, tornando a casa stremata. Il verde dei campi e l'azzurro del cielo che si fanno poco a poco più densi e più intensi, di cromia in cromia, ascendendo l'uno verso la linea dell'orizzonte, l'altro verso l'infinito. Il sole, in mezzo, e un uomo – scura e vaga figura, esattamente al centro, riduzione ad un quasi-niente dell'Uomo Vitruviano – davanti al sole. Oscurità dell'uomo e tripudio della natura immortale. Luce di una vita più alta che inghiotte l'ombra del sentiero terrestre.

«Che si può dire di una ragazza morta a tredici anni», si domandò lui. «Quella verità, che tanto volevamo nascondere, si è avverata. Quella magica ragazza che ha sofferto per tutti noi». 
Cristianamente si crede, o ci si vuole illudere, che un sacrificio odioso ed insensato possa espiare una qualche colpa condivisa.  
«Se dovete ricordarmi fra le lacrime, non ricordatemi affatto», fu l'ultima frase lasciata da lui. 
Come quando un filosofo antico raccomandava di figurarsi chi non c'è più avvolto da un radioso alone di sorriso. 
Questa stoica, misurata e quasi pudica accettazione del destino è il loro vero lascito. 
Più importante, in fondo, di ogni gloria letteraria.