La musica italiana è di classe inferiore a quella prodotta dai colossi angloamericani? Ai posteri, e agli esperti, l’ardua sentenza. Quando Lucio Battisti si rivolse (se non lui in person, la sua etichetta o il management) al produttore inglese Geoff Westley, per anglicizzarsi e tentare un respiro più ampio, sotto tutti i profili, il grande producer, ce lo dichiara nel 2017, non ebbe nulla in contrario: come diciamo a Genova, basta pagare. Egli aggiunge che, per quanto ne sapeva allora, si fosse trattato di artisti italiani, indiani, coreani o del Burkina Faso, per lui sarebbe stato uguale. Tale affermazione non ci è piaciuta granché, e non certo perché ci riteniamo superiori a chicchessia, ma pensavamo di aver prodotto qualcosa in più dei popoli cui Westley ci appaia, almeno sul versante delle vendite e della risonanza mediatica, si tratti di “Volare” o di opera alta. Tuttavia, ai tempi, anni settanta, così era. Quando chiedevi a un inglese se conoscesse qualcosa della nostra arte a sette note, ti rispondeva, perlopiù, con un nome, che, viceversa, a noi diceva poco: Mario Lanza. Insomma, non c’era feed back, loro erano loro e noi non eravamo un…ci siamo capiti. La colpa è solo nostra, poveri tapini rincitrulliti dal rock and roll, dall’R&B, ficcatoci in testa dai guru che la veicolavano, si chiamassero Gianni Boncompagni o Gianni Minà, gente che poi, dopo averci fatto pendere dalle labbra di Elvis o degli acidissimi Pink Floyd, ci dava degli sfigati perché c’eravamo cascati.

Posto che la lingua italiana non è facile da ficcare nel pentagramma, con quelle dannate vocali in finale di quasi tutte le parole, che costringono a contorsionismi arrangiativi, a noi qualche musicista di casa nostra sembrava discretuccio. Qualcuno ce l’ha con le scuole cantautorali, che avrebbero calpestato l’ansito squisitamente musicale: troppi concetti nei nostri testi, a scapito delle armonie, dei virtuosismi, delle sperimentazioni.

Proseguiamo dunque, da umili fruitori,  la nostalgica passerella dei bardi rimpianti,  coloro che ci hanno fatto gorgheggiare, quando pretendevamo di essere noi stessi cantante, batteria, chitarra, canto, controcanto e coretto, con un quid di immancabile mistero per alcune figure che toccheremo.

In ordine cronologico, nel 1943, il fatidico 4 marzo, nacque il bolognese Lucio Dalla. Il piccolo grande uomo non iniziò esibendo subito la sua valentia, ma dovette sorbirsi le forche caudine del festival di Sanremo (1967 “Bisogna saper perdere” in coppia con i simpatici Rokes) e perfino girare dei musicarelli, prima di trovare la sua dimensione nuda e cruda, dagli anni settanta in avanti, esaltato anche da citazioni cinematografiche, come quelle di Carlo Verdone, e attorniato da una sorta di cerchio magico in positivo, formato da colleghi in concerto, in seguito magari rilucenti in proprio, come gli Stadio. Ci sembra che, tra i tanti successi, densi di riferimenti mitopoietici, la sua “Caruso” brilli nel nostro firmamento musicale. La parte misteriosa/misterica, rilanciata da giornalisti del settore, parte proprio da Sanremo 1967. Egli dormiva nella stanza accanto a quella di Luigi Tenco e non sono mancate allusioni a quanto avrebbe visto e sentito, nel marasma di quell’edizione; al riguardo, esiste un’intervista “ a caldo”, con Lucio a letto proprio in quella camera (ma non poteva alzarsi per parlare?). Della tragedia di Luigi, abbiamo trattato nel libro “Complottista io?” (Carmen Gueye, Eidon edizioni). Nemmeno la sua morte, a Montreux, nel 2012, fulminato da un infarto, si è sottratta alla lente dei complottisti/esoteristi. Tutti coloro che lo videro in quei giorni testimoniano che stava benone, ma il punto è che non si accetta più l’impermanenza nel mondo terreno, come la cronaca attuale dimostra. La rosa rossa sulla bara al funerale completò il quadro, qualcuno volendovi scorgere un simbolo d’appartenenza alla nota setta mezzo satanica e mezzo deep state.

Saltiamo al 1955. Siamo a Napoli, città che sforna e forgia talenti a gettone. Il 19 marzo (quanti cantautori del segno dei Pesci!) vede la luce Giuseppe “Pino Daniele”, un formidabile emulo dei bluesman americani, che aveva tanto ascoltato nella base navale americana, bazzicata in seguito sul palco, nelle prime esibizioni. Si fece notare dal pubblico giovanile col gruppo “Napoli Centrale” e il fantastico pezzo “Campagna”, dove già si accompagnava al sassofonista e cantante USA/partenopeo James Senese, con cui collaborerà ancora in seguito. Vederlo in concerto, insieme a Tony Esposito e Tullio De Piscopo, fu una bella esperienza, anche se ormai coperta dalla polvere di un tempo che non tornerà.

Pino e Dalla avevano in comune una partenza ideologica “ di sinistra”, con sfumature “catto”, che a noi poco interessavano, l’arte scavalcando ogni pretesa di messaggio politico. E Pino non è stato avaro di soddisfazioni con noi, addolcendo lo stile negli anni, sempre flautato e seducente.

Dopo la fine di una matrimonio giovanile, da cui erano nati due figli, Daniele si accasò per un pezzo con la modella Fabiola Giambarrasi, da cui ne ebbe altri tre. L’unione terminò quando il cantautore conobbe Amanda Bonini, che gli era accanto il 4  gennaio 2015, allorché egli fu colto da un malore fatale nella sua villa di Orbetello, morendo all’ospedale Sant’Eugenio di Roma, dove inutilmente lo avevano portato. Si scatenarono feroci polemiche, e pare che il fascicolo che lo riguarda sia ancora aperto in procura. Qualcuno si chiese perché non ricoverare Pino in un vicino nosocomio e fargli sopportare, per giunta seduto e non sdraiato, il percorso fino alla capitale. Sia come sia, vero è che il cantante soffriva di severi problemi cardiaci.

L’anno dopo, nel 1956, nell’incantevole borgo lucano di Lagonegro (noto anche come centro massonico) nasce Giuseppe (Pino) Mango, che delle proprie origini era orgoglioso (Pippo Baudo, una volta, gli diede del calabrese e ne fu corretto). In seguito l’anno di nascita è stato retrodatato al 1954, noi ci atteniamo a quando esordì e ce lo teniamo “ringiovanito”. Lo stile da cantore ellenico, quasi un Demis Roussos in versione Magna Grecia, lo rendono unico e indimenticabile, tranne per i suoi corregionali che, notoriamente ostili ai talenti delle proprie parti, si disconoscono spesso da paese a paese. Fu proprio a Policoro, in provincia di Matera, l'8 dicembre 2014, che il magico Pino, durante un concerto accusò un mancamento e, nel comunicarlo, stramazzò senza più riaversi. Un filmato in rete immortalerebbe il drammatico momento. Per lo sconforto, se ne andò subito dopo anche un suo fratello, e altri due dovettero ricorrere a cure mediche per il malessere causato dal dolore della perdita: una famiglia unita.  Tiene in vita la sua memoria, oltre la sua arte memorabile, la vedova Laura Valente, egregia singer a sua volta (ha lavorato con i Matia Bazar).

Mango avrebbe confidato, poco tempo prima, di aver sognato Fabrizio de André (scomparso nel 1999) che,  in un certo senso, lo “chiamava” a sé. Anche nel suo caso, fu il cuore a tradirlo, mentre cantava il suo primo successo, “Oro”, come la sua musica.