In un’epoca in cui la previdenza è ridotta ad una voce contabile da bilancio, un costo da contenere, piuttosto che un diritto da garantire e un pilastro della dignità umana, la voce di Gregorio Scribano si distingue con forza e chiarezza. Ex sindacalista, esperto di comunicazione, editorialista e opinionista, il Dottor Scribano porta avanti da decenni un messaggio tanto semplice quanto rivoluzionario per i tempi che corrono: una pensione equa non è un favore, né tantomeno una regalia. È il riconoscimento dovuto ad una vita di lavoro, un diritto inviolabile, sacrosanto.
La sua posizione è netta, ferma, senza ambiguità: l’asticella dell'età pensionabile deve fermarsi a 65 anni e l’assegno mensile deve corrispondere allo stipendio percepito negli ultimi anni di attività, al netto delle ritenute previdenziali.
Nessuna riduzione, nessuna penalizzazione.
Una linea chiara, quasi controcorrente in un contesto dove ogni discussione sulle pensioni si traduce in tagli, ritocchi al ribasso, rinvii.
Eppure, è sotto gli occhi di tutti: il nostro sistema pensionistico si è gradualmente trasformato in un meccanismo freddo, tecnico, che penalizza proprio chi avrebbe più bisogno di tutele. Il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo – spacciato come “modernizzazione” e “giustizia tra generazioni” – ha di fatto spersonalizzato il rapporto tra cittadino e Stato. Oggi, la pensione non è più il frutto di un percorso umano, ma il risultato di un algoritmo.
Scribano non ci sta: “Il lavoro non è un algoritmo”, ripete spesso. E ha ragione. Perché nessuna formula matematica può restituire il valore reale di una carriera lavorativa, soprattutto se segnata da eventi che il sistema considera “anomalie”: malattia, disoccupazione, maternità, assistenza a familiari. Tutti elementi umani, che però non trovano spazio nei freddi calcoli contributivi.
Le misure tampone come Quota 103 o l’Ape Sociale, pur pensate per introdurre un po’ di flessibilità, finiscono per trasformare un diritto in una concessione, spesso al ribasso. Non bastano a risolvere il nodo principale: il progressivo scivolamento della vecchiaia verso una condizione di incertezza economica e di precarietà sociale. Come se dopo una vita di lavoro ci si dovesse accontentare del minimo, dell’indispensabile, invece di vedersi garantita la stessa dignità di sempre.
E ogni volta che si parla di una riforma più giusta, più umana, ecco che rispunta il ritornello della “sostenibilità”. Un concetto invocato solo quando si parla di diritti sociali, mai quando si tratta di salvare banche o coprire buchi miliardari creati da scelte scellerate. “Quando si tratta di salvare le banche, i soldi si trovano. Per i pensionati mai”, denuncia Scribano. Una frase dura, ma che fotografa perfettamente una realtà dove le priorità non sono dettate dalla necessità, ma da precise scelte politiche.
Intanto, pensioni d’oro e pensioni baby continuano ad essere erogate, mentre l’INPS – che dovrebbe occuparsi solo di previdenza – si trova a sostenere anche spese assistenziali come cassa integrazione, maternità, disoccupazione, pensioni sociali, bonus e prebende di ogni genere. I contributi versati dai lavoratori finiscono così in un calderone indistinto, dove tutto si confonde.
La proposta di Scribano, in tal senso, è limpida: separare nettamente previdenza e assistenza e rilanciare la lotta all’evasione fiscale e contributiva. "I soldi - dice - ci sono. Quello che manca è il coraggio di metterli dove servono davvero".
E allora, è così assurdo pretendere un sistema in cui chi lavora, oggi, possa contare, domani, su una pensione che garantisca continuità, stabilità, dignità, rispetto? Scribano non propone utopie, ma una visione alternativa fondata su un principio basilare: una società civile si misura da come tratta i suoi anziani.
Il suo messaggio ai giovani, infine, è forse il più potente. In un Paese dove troppi trentenni hanno già perso la speranza di una pensione degna di questo diritto fondamentale, dove il lavoro precario è diventato la regola, Scribano lancia un appello chiaro: "Non rassegnatevi. Non accettate l’idea di una vecchiaia povera. Perché accettare il precariato a vita significa accettare un futuro senza diritti, e una società che accetta questo è destinata al fallimento".
Il Dottor Scribano non è un nostalgico del passato. È un realista con una visione etica. E in un dibattito sempre più ingessato dai numeri e dai tecnicismi, la sua voce ci riporta alla vera domanda: che società vogliamo diventare?
Se la risposta non include la dignità di una vecchiaia serena per tutti, allora vuol dire che abbiamo smarrito la nostra bussola morale.