Sono decine i civili uccisi e feriti nei bombardamenti di aerei e artiglieria che all'alba di sabato hanno ulteriormente distrutto in varie aree della Striscia di Gaza. Finora, è di 24 il numero dei morti.

Interessate dai bombardamenti diverse aree nel nord della Striscia, che secondo quanto aveva dichiarato l'IDF avrebbe dovuto essere sotto il controllo dell'esercito oramai da mesi.

Bombardamenti si sono registrati anche a Rafah, dove i caccia israeliani hanno bersagliato il quartiere di al-Salam e le vicinanze del valico con l'Egitto.

Sempre a Rafah, da cui sarebbero fuggite finora 150mila persone (in base agli ultimi rapporti), l'esercito israeliano ha ordinato l'evacuazione di ulteriori aree.

Giovedì, sia Hamas che i negoziatori israeliani, hanno lasciato il Cairo, dove si stavano tenendo i colloqui per raggiungere un accordo sul cessate il fuoco. L'accordo non è stato raggiunto, ma secondo una fonte israeliana, Ynetnews, le parti in conflitto starebbero ancora dialogando tramite i mediatori.

Nonostante lo stop, temporaneo, alle armi offensive da parte di Biden, come confermano i nuovi ordini di evacuazione, Netanyahu ha deciso di continuare l'operazione di terra su Rafah, supportato dal via libera del gabinetto di guerra.

I carri armati israeliani, entrati dal confine orientale, hanno esteso il controllo lungo l'arteria che taglia Rafah da nord a sud, circondando la parte est della città. La stessa della quale le Forze di difesa avevano chiesto lunedì l'evacuazione.

«Alla periferia di Rafah abbiamo visto scene di caos – ha dichiarato Rachael Cummings, team leader di Save the Children a Gaza –. Le strade erano piene di veicoli, con gente ammassata sui camion e bambini in cima ai carretti trainati da asini dov'erano ammucchiati gli averi di famiglia. Abbiamo visto intere vite stipate nella parte posteriore di un'auto o di furgoncini. C'era chi camminava portandosi addosso di tutto. Dappertutto bambini, che correvano per restare al passo».

Da Rafah se n'è andato anche il personale dell'Ong, trasferitosi a Deir al-Balah, a nord dell'area costiera «umanitaria» di al-Mawasi indicata dagli israeliani come alternativa alla città distrutta di Khan Yunis.

«Al-Mawasi è gremita – riferisce Cummings –. Non c'è più spazio. Non si riesce a dare assistenza né acqua, né servizi igienici. Fa caldo, mosche ovunque. Nulla è pulito, nulla è sicuro, ma la gente crede di lasciarsi alle spalle qualcosa di peggiore. I bambini sono sconvolti. Mentre attraversavamo Deir al-Balah – prosegue – abbiamo visto persone cercare uno spazio qualsiasi per allestire un riparo. Alcuni costruivano con legno e teloni, altri piantavano tende. È un posto terrificante per i piccoli: piangevano e urlavano, sopraffatti dal panico».

A preoccupare gli operatori umanitari è anche la chiusura dei valichi di Rafah e Kerem Shalom, dai quali fino al 5 maggio entrava la maggior parte degli aiuti che consentivano gli approvvigionamenti per il milione e mezzo di persone ammassate nel sud della Striscia di Gaza. Da quando l'esercito controlla anche il lato palestinese del valico di Rafah, l'ingresso dei convogli è limitato, contribuendo a peggiorare anche l'operatività degli ultimi ospedali che riuscivano ad operare, seppur non certo normalmente.



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