Un'inchiesta di alcune ONG, che si occupano dei diritti dei lavoratori del settore dell'abbigliamento, rivela le pessime condizioni di lavoro e i miseri salari degli operai nelle fabbriche dei paesi dell'Europa dell'Est, che producono le scarpe dei marchi più famosi, fra cui l'italiana Geox, Bata e Zara.

L'indagine, i cui risultati sono stati pubblicati in un rapporto dal titolo "Labour on a shoestring" (che potremmo tradurre con "Lavoro appeso ad un laccio da scarpe"), hanno preso in esame l'industria calzaturiera in sei paesi europei: tre appartenenti alla UE (Polonia, Romania e Slovacchia) e tre no (Albania, Bosnia-Erzegovina e Macedonia).

Produrre all'estero è reso possibile e conveniente dall'OPT (Outward Processing Trade), uno schema istituito negli anni 70 dall'Unione Europea, grazie al quale è consentito esportare parti di un prodotto, in questo caso tomaie, suole, tacchi, ecc., per essere assemblate e cucite e poi reimportare il prodotto finito senza oneri doganali. L'intenzione originaria era quella di favorire la creazione di posti di lavoro più qualificati e remunerati nei paesi d'origine.

I bassi salari negli stati ex-comunisti dell'Europa orientale sono anche il risultato delle politiche salariali restrittive imposte dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale e dalla Commissione Europea in cambio della concessione di prestiti.

Nei paesi presi in esame il salario è a livelli così bassi da non consentire uno standard di vita dignitoso ai lavoratori ed alle loro famiglie. E' stato riscontrato che la differenza fra quello che viene considerato un salario di sopravvivenza e il salario minimo previsto per legge, in alcuni di questi paesi, è maggiore rispetto alla Cina.

Spesso sono pagati salari perfino più bassi di quello minimo, come accade, ad esempio, in Macedonia dove in una fabbrica che produce scarpe per la Geox i lavoratori ricevono uno stipendio di 131 euro/mese, quando il minimo legale è di 143 euro. In Albania un operaio su tre fra quelli intervistati non riesce a raggiungere il salario minimo, nemmeno facendo gli straordinari o con i premi ricevuti al raggiungimento degli obiettivi.

Prevale il lavoro a cottimo, per cui gli operai sono pagati in base a quanto producono, con tutte le conseguenze del caso, in termini di ore lavorate e di mancato rispetto delle norme di sicurezza. I ritmi di lavoro sono dettati dagli ordini ricevuti e dalle scadenze imposte dai committenti e questo comporta spesso dover lavorare anche il sabato e fare molte ore di straordinario, quasi sempre non retribuito. In media ogni lavoratore in un giorno deve completare 60 paia di scarpe. Raramente si riesce a godere per intero delle ferie annuali.

Non si fa uso di guanti per proteggersi dal mastice e da altre sostanze chimiche impiegate nella lavorazione, perché con i guanti si lavora peggio e, diminuendo la produttività, si riduce anche il salario.

Nonostante i molti rischi per la salute cui sono esposti i lavoratori dell'industria calzaturiera, la ricerca ha potuto verificare che le ispezioni delle fabbriche per la verifica delle condizioni di lavoro sono molto rare e spesso preannunciate e non coinvolgono mai gli operai, che lamentano anche il mancato pagamento dei contributi.

Non ci sono sindacati che rappresentino le istanze dei lavoratori, che comunque evitano di protestare nel timore di essere licenziati.

Anche quando a lavorare sono la moglie e il marito, due stipendi non sono sufficienti per tirare avanti una famiglia. E' necessario trovare altre fonti di reddito. Qualcuno approfitta di lavori stagionali in occidente, altri coltivano un pezzo di terra e allevano animali per soddisfare le necessità alimentari.

Gli ambienti di lavoro sono pessimi. D'inverno fa un freddo insopportabile e d'estate un caldo asfissiante. Sono in molti ad accusare dei malori per colpi di calore o a rimanere intossicati. Il vice-sindaco di Calafat in Romania ha parlato di "poveracci che cascano giù come mosche". Se c'è da trasportare qualcuno in ospedale, in mancanza di un'auto, si fa ricorso ad una carriola.

Un'operaia romena ha riferito che il suo capo reparto italiano, dopo che tre donne si erano sentite male per il troppo caldo, ha detto, seppure per scherzo, che, se si continuava così, sarebbe stato necessario fare un cimitero dietro la fabbrica.

Fino ad oggi si riteneva che ad essere vittime dello sfruttamento dei produttori di capi di abbigliamento e di calzature fossero gli operai dei paesi asiatici. In realtà, questa inchiesta ci dimostra come per i marchi europei sia più comodo produrre in continente, soprattutto quando si riesce a farlo a costi competitivi con quelli del Bangladesh o della Cina.

Alla richiesta di commentare il contenuto del rapporto, Zara ha confermato che una piccola parte delle sue scarpe sono prodotte in Romania e Albania e di attenersi ad un codice interno che prevede il rispetto dei diritti dei lavoratori. Comunque, saranno fatte delle verifiche per accertarsi che i salari siano sufficienti a garantire un tenore di vita dignitoso e, in caso contrario, si impegnerà affinché vengano adeguati.

Bata non ha replicato direttamente alle accuse ma ha definito interessante il contenuto del rapporto. In ogni caso l'azienda si aspetta che i suoi fornitori rispettino le leggi del paese cui appartengono.

Geox ha preferito non rilasciare nessuna dichiarazione.