Un po’ di giorni orsono, mi ero soffermato presso un canale televisivo generalista in cui un erudito da salotto sottoponeva il suo interlocutore ai più truculenti animavversamenti che rammemoro nel mio quasi-quadragesimo anno di esistenza umana, esponendolo indebitamente al teleludibrio del pubblico televisivo.

L'accusato era stato apostrofato in guisa di pseudo-intellettuale sesquipedale, e lui, pronto con il suo ingegno, aveva subitaneamente obiettato che incriminare qualcuno di “sesquipedalismo” era il modo più sicuro per confermare la propria intrinseca ignoranza. E tra l’uno e l’altro, avevo surrettiziamente aperto l'app del mio dizionario gratuito offline di italiano per scoprire l’ermetica valenza semantica.

Definizione di sesquipedale:”Essere vivente che sfoggia una ostentata esibizione di un vernacolo eclettico tramite enunciati declamati o inscritti graficamente sempre mediante un’impudente giocosità, una futilità fatua, una garrulità sagace e una guascona rodomontata di guida che ingrazi una certa sembianza di alto lignaggio che risuona più come un filosofeggiare pleonastico che una connaturale erudizione”. Per non perdermi in prolisse elucubrazioni, chiesi al mio assistente digitale, il quale mi decodificò:”Qualcuno che si vanta usando parole complesse".

Ma già almanaccavo le seguenti parole per ritrarre tale tipo di persona: prolisso, digressivo, loquace, perifrastico, circonlocutorio. In realtà, str…. è probabilmente il miglior sinonimo che abbia discernito: è un soprannome universalmente intercambiabile che praticamente ogni erudito da salotto avrà dovuto conciliare di appaiarsi.

Masse di altisonanti parole inglesi, latine e francesi si riversano sulle nostre labbra quando dissertiamo, come il “parmesan” su una fetta di pizza, abbacinando l'argomento ed eclissando i dettagli. E nelle stanze interne delle nostra abilità "articolative" sono annidate tutte le ansie e le pressioni sociali che progressivamente ci postuliamo. Ci abbagliamo che se ci palesiamo colti, assurgiamo ad essere più intelligenti, ergo più furbi, ergo lo siamo.

Allorché non sappiamo cosa enunciare in un’aula, in un salone, ad un esame, in un tema, in un saggio, ma ci sentiamo obbligati a proferire qualcosa e comunque, ci decliniamo istintivamente ad abborracciare parole dilatate spazialmente e/o idiomatismi depauperati.

L’annoso questionamento, oserei notificare, è endemico all’eredità accademica, ai nostri professoroni il cui fine industrioso, penserebbe uno scrutatore alieno, è meramente quello di forgiare nuovi termini vocabolarieschi per realtà che abbiamo già qualificato. Infatti, coniare una frase o un certo gergo disciplinare è quasi tanto un rito di passaggio per i dottissimi quanto la loro perdurabilità. Le loro elucubrazioni lessicali non implicano vasta arte o ampli sforzi, che, più sovente che altro, si metamorfizzano nella mera aggiunta suffissi quali: -ismo, -ico, -ente, -io o -azione, o una combinazione di questi, a un vetusto morfema di base.

Non si constata niente di intrinsecamente deviante in un lemma lungo o ampolloso. No, la questione non è il termine lessicale, ma difatti come esso viene avvalso. In un mio passato ritaglio spazio-temporale, assistendo ad un seminario artistico ne sortì uno studente dall'aspetto ostensibilmente timido che ardimentò con un suo commento sul film appena proiettato:"Anche se l'utilizzo semi documentaristico dell'esposizione disordinata (ovvero: cannoni, fuochi d'artificio, ... ) è visceralmente sensazionale, fallisce, parlando soggettivamente, nel suscitare l'amigdala". Per me fu un'esibizione discorsiva degna di un Oscar come guardare DiCaprio congelare a morte in una piscina per bambini. Manifestamente, cosa intendesse era: soffermarsi solo sugli effetti pirotecnici, la loro "fantasticità", era rimarchevole ma essi non aggiungevano null’altro al dramma.

Oggigiorno, ci si incappa sempre più in spazi comuni di socializzazione dove il linguaggio immoderato confluisce nel riempire gli inani abissi dell'ignoranza umana. Propendiamo tutti a questa fatua fiera della vanità lessicale (me compreso, in questo elaborato). Proprio come ci abbardiamo in giacca e cravatta per i nostri colloqui, anche le nostre articolazioni discorsive metamorfosate in linguaggio si drappeggiano di pregevoli sofisticatezze verbali.

Si sovviene munirsi dei sopraccitati abbigliamenti linguistici solo nelle proprie stanze, o con gli amici, ma è solo per affettata galanteria raffinare, in ambienti accademici, l’esibizionismo vocabolariesco: metamorfosarci in affiliati del sesquipedalismo.

In queste congiunture, bramiamo nel scialacquare lemmi a iosa: sfoggiamo termini quali animavversione, pulcritudine, sacripante. Quando applicate per un fine uditivo, un gioco di parole, una rima, del ritmo, una assonanza, una allitterazione o per un eccesso ludicamente intenzionale, l'uso è giustificato. Ma più soventemente, nessuna di queste sortite sopraggiunge.

Ho udito, in qualche frangente, studenti adoperare tendenzioso per parziale, o lacuna per vuoto. Peggio ancora, ho avuto ex-colleghi che opinavano nell’affermazione che "foucaultiano" e "globalizzazione" fossero sempre applicabili e a volte interscambiabili. Tutto ciò si trasfigura in un fatuo sforzo per caratterizzarsi ermetici, ma in realtà ci si paleserà poco chiari.

Allorché mi avventurai nel navigare le mie prime tumultuose acque universitarie, miravo ad incorporare un nuovo lemma al mio vocabolario cada die. Abbisognai di almeno un anno prima che acquisissi coscienza che la maggior parte dei neologismi che stavo incorporando erano solo vanità confusionarie.

Decisi in siffatto modo di protendere a “ripudiare” una parola dal mio vocabolario ogni giorno. Non parole vitali, intendo, non quelle senza sinonimo o quelle di particolare associazione: uno dei miei professori (per me più benemeriti), una volta mi esemplificò:"Se perdi la parola di qualcosa, dimentichi che in un momento era abbastanza rimarchevole da avere una parola associata ad essa, ma piuttosto cancella quelle che non adducono nient’altro che a incastonata presunzione intonata.

Da allora venni in contatto con molti altri vocaboli inutili che appresi nella panoplia degli intricati arazzi delle sacre sale delle istituzioni accademiche più venerabili dell’Ivy League, ma erano tutte parole che ho assurto (e fallendo miserabilmente) a dimenticare.

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