Articolo di Gabriele Catozzi Il termine triage deriva dal francese “trier” e significa scegliere e come conviene ad un popolo ed ad una nazione aperta anche alla sintesi del proprio patrimonio linguistico, si è ritenuto opportuno adottarlo nei pronto soccorsi degli ospedali italiani per classificare ed indicare il metodo di selezione immediata per valutare il grado di priorità per il trattamento quando si è in presenza di molti pazienti. Un compito, quello di valutare, molto difficile e spesso ingrato. Ed in questa ottica, forse anche una testimonianza può valere qualcosa, almeno in termini di manifestazione di empatia nei confronti di medici, infermieri e tutto il personale che ogni giorno, oltre a compiere un delicato e fondamentale ruolo, affronta le sofferenze e le insofferenze di tanti. E quando capita, (ed è il mio caso) di entrare in un pronto soccorso non da pazienti ma da accompagnatori, l’empatia si espande anche a coloro che si lamentano o imprecano; è inevitabilmente umano provare un sentimento di pietà, tristezza e ammirazione nel vedere come coloro che in quel luogo ci sono arrivati per il vero dolore (i pazienti), comprendono che potrebbero attendere anche molte ore, accettando con grande dignità il loro turno di attenzione ed il triage che li riguarda, forse sono ben consapevoli, anche coloro che non conoscono l’espressione francese, che in quel luogo, pochi minuti e spesso pochi secondi, come già detto, salvano la vita. Consapevolezza o rassegnazione, o paura di non trasgredire o non indispettire chi in quel momento ha il dovere e l’onere di decidere a quale colore associarti è impossibile dirlo, tutti vorrebbero almeno un azzurro, meglio ancora un verde, il bianco ti segnerebbe come ultimo degli ultimi, ma ognuno valuta comunque importante il proprio dolore ed il dolore rende inevitabilmente inerti, anche quando, per alleviarlo, è stato disposto un angolo della sala principale a scopo ludico con giochi, forse destinati a bimbi, forse a quelli che stanno bene e non dovrebbero stare lì, forse a quelli che stanno male e non hanno voglia di giocare, forse a tutti, perché anche solo pensare di ritornare all’infanzia, osservando quei giochi, può aiutare…. oppure alle famiglie, perché può capitare che una intera famiglia debba recarsi al pronto soccorso, un coniuge accompagna l’altro, con la piccola prole al seguito e nell’attesa si gioca un poco tra gli infermi. Comunque sia, rimane difficile non pensare ad un “ossimoro” di contesti. Le lamentele vengono soprattutto da chi deve attendere pur non avendo sofferenze fisiche, da chi accompagna; anche per questi, come già detto, è inevitabile provare empatia e pensieri. E pensare porta a riflettere ed, a riassumere in concetti una esperienza che prima o poi quasi certamente dovrà vivere… al momento in cui, non da osservatore, si dovrà affidare alla valutazione, al triage. Il Paradiso in terra certamente non esiste, esso rappresenta non un luogo ma una dimensione, della quale ognuno può farsi idea o immagine, ma alla debole resistenza dell’umana specie viene da pensare che la descrizione del Purgatorio, se non addirittura l’introduzione del canto terzo dell’inferno descritta dal sommo Dante Alighieri sia purtroppo alla portata quotidiana. Pensando ancora, poiché nulla viene da rimproverare a nessuno, dato che la “nave” nella quale navighiamo è la stessa e dobbiamo fidarci dei capitani, mi viene in soccorso un altro pensiero legato alla terra ispiratrice della sintesi sintattica “triage”, descritto dall’ illuminista François-Marie Arouet. Questo filosofo, meglio conosciuto come Voltaire, per stigmatizzare le dottrine ottimistiche di un altro filosofo (Leibniz), incarna esso nella figura del precettore Pangloss, intento ad istruire il giovane Candide a vedere il mondo che lo circonda con ottimismo e lo fa esortandolo a “vivere nel migliore dei mondi possibili”. E questo è il “migliore dei mondi possibili”, anzi, anzi, per quasi tutti, l’unico.