L’obbligatorietà dell’azione penale è un principio cardine della giustizia italiana, ma il suo utilizzo solleva interrogativi sulla distinzione tra ‘atto dovuto’ e ‘atto voluto’. La recente vicenda degli avvisi di garanzia inviati alla premier Meloni e ad alcuni ministri, in merito alla liberazione del generale Almasri, riporta alla ribalta il dibattito sull’ingerenza della magistratura nella politica.
Un atto dovuto, per definizione, impone al pubblico ministero di iscrivere un nome nel registro degli indagati in seguito a una denuncia. Tuttavia, il rischio è che tale principio si trasformi in un atto voluto, cioè in un’iniziativa discrezionale che incide pesantemente sugli equilibri politici. Il caso Open Arms, che ha coinvolto Matteo Salvini, ha dimostrato come un’inchiesta possa avere effetti diretti sulla carriera politica di un leader, che nella fattispecie in attesa di giudizio si è visto soffiare il ministero dell’Interno.
La tensione tra politica e magistratura è acuita dalla riforma sulla separazione delle carriere, promossa dal governo e osteggiata da parte della magistratura. Alcuni esponenti della maggioranza denunciano un uso eccessivo degli avvisi di garanzia, mentre l’opposizione si divide tra chi, come Renzi, chiede una revisione dell’obbligatorietà dell’azione penale e chi, come il PD, evita di esporsi.
Ma la Procura di Roma avrebbe potuto evitare di inviare gli avvisi di garanzia a Giorgia Meloni e ai ministri coinvolti? La risposta è complessa e dipende sia da vincoli giuridici sia da valutazioni discrezionali.
Dal punto di vista formale, l’iscrizione nel registro degli indagati e il conseguente avviso di garanzia sono considerati “atti dovuti” quando una denuncia o un esposto configura ipotesi di reato a carico di soggetti identificabili. Questo è un principio derivante dall’obbligatorietà dell’azione penale sancita dall’articolo 112 della Costituzione, che impone ai pubblici ministeri di procedere alle indagini senza margini di scelta discrezionale.
In questo caso, una denuncia ha sollevato dubbi sulla legittimità delle modalità con cui il governo ha gestito la liberazione del generale libico Almasri. Se il pubblico ministero avesse ignorato l’esposto senza iscrivere gli indagati nel registro, si sarebbe esposto all’accusa di omissione.
L’invio dell’avviso di garanzia, pur essendo tecnicamente un atto procedurale, non è sempre automatico. Molti giuristi sostengono che la magistratura potrebbe adottare un approccio più prudente, valutando l’effettiva fondatezza delle accuse prima di notificare un provvedimento che, pur non implicando una colpevolezza, ha un forte impatto mediatico e politico. In passato, alcuni procuratori hanno adottato criteri più restrittivi, evitando iscrizioni immediate per reati che appaiono manifestamente infondati o di scarso rilievo.
In questo caso, la procura di Roma avrebbe potuto adottare una strategia più attendista, verificando prima se le accuse avessero una solida base giuridica. Tuttavia, il fatto che gli indagati siano figure istituzionali di alto livello potrebbe aver spinto i magistrati ad agire con particolare scrupolo per evitare sospetti di insabbiamento o trattamenti di favore.
Formalmente, la Procura di Roma aveva basi giuridiche per inviare gli avvisi di garanzia, ma avrebbe potuto esercitare una maggiore discrezionalità nell’attendere ulteriori verifiche prima di notificare ufficialmente gli indagati. Non farlo ha alimentato il dibattito sulla necessità di riformare il sistema dell’azione penale, bilanciando il dovere di indagine con la tutela della stabilità politica.
Il nodo resta, comunque, irrisolto: se da un lato l’obbligatorietà garantisce l’uguaglianza davanti alla legge, dall’altro lascia spazio a interpretazioni che possono diventare strumenti di pressione politica. Riformarla significherebbe ridefinire il confine tra giustizia e politica, ma il rischio di una deriva arbitraria è sempre dietro l’angolo.