Vincenzo Musacchio sui referendum del 12 giugno
“La mia riforma della giustizia si ispira al pensiero di Rosario Livatino il quale sosteneva che il giudice di ogni tempo deve essere e apparire libero e indipendente, e tanto può essere e apparire ove egli stesso lo voglia e deve volerlo per essere degno della sua funzione e non tradire il suo mandato”.
di Lucia De Sanctis
Professore, ritiene che il voto popolare possa risolvere i problemi della giustizia in Italia?
Con tutti i limiti possibili, ritengo il referendum un importante istituto di democrazia diretta. Grazie a questo strumento i cittadini, senza la mediazione del Parlamento, possono esprimere la loro opinione direttamente su una norma, un atto o una decisione da assumere. Di conseguenza qualunque sarà l’esito dei referendum del 12 giugno andrà rispettato e attuato dagli organi deputati a farlo.
Non le sembra che su questi temi sia più giusto che decidesse il Parlamento?
Quale Parlamento? Quello spodestato dal Governo e che è in piena crisi? La scossa referendaria potrebbe anche essere utile alla democrazia italiana riattivando proprio quel Parlamento ormai “spento” da troppo tempo.
Veniamo ai referendum. Cosa ne pensa dei due dichiarati inammissibili?
A mio avviso erano i più “sentiti” dai cittadini e cioè quelli “eutanasia legale” e sulla “cannabis legale”. L’unica possibilità per intervenire su questi temi ora resta quella di aspettare che se ne occupi la politica.
Ci spiega e la illustra anche ai lettori la modalità di voto?
È abbastanza semplice. Si vota “sì” se si vuole cambiare la legge attualmente in vigore, oppure, “no” se si vuole mantenerla così com’è. Per essere valido, ogni quesito dovrà raggiungere il quorum, cioè la maggioranza degli aventi diritto in Italia.
Parliamo del primo quesito sulla cd. legge Severino. Lei si orienterà nel voto?
Il primo quesito riguarda l’incandidabilità per i politici condannati. In Italia, chi è condannato in via definitiva per alcuni gravi delitti non può candidarsi alle elezioni, né assumere cariche pubbliche e, se è già stato eletto, decade. Coloro che sono eletti in un ente locale, come i sindaci, sono invece automaticamente sospesi dopo la sentenza di primo grado (quindi non in via definitiva, dato che nel nostro ordinamento sono garantiti tre gradi di giudizio). Se vince il “sì”, sia l’incandidabilità per i condannati in via definitiva, sia la sospensione per gli eletti in enti locali, non saranno più automatiche ma saranno decise da un giudice caso per caso. Chi è per il “sì” sostiene che la legge penalizza gli amministratori locali che vengono sospesi senza condanna definitiva, esponendoli alla pubblica condanna anche nel caso in cui si rivelino poi innocenti. Chi è per il “no” sottolinea che se questa legge verrà abolita, i parlamentari, i sindaci e gli amministratori condannati per mafia, corruzione, concussione o peculato potranno tornare a candidarsi e a ricoprire cariche pubbliche. In questo quesito voterò convintamente per il “NO” poiché ritengo che persone condannate per reati di mafia o per altri reati gravi non possano ricoprire incarichi pubblici.
Del secondo quesito sulla custodia cautelare invece cosa pensa?
Il secondo quesito riguarda la limitazione delle misure cautelari che sono provvedimenti – decisi da un giudice – che limitano la libertà di una persona sotto indagine (quindi non ancora condannata). Alcuni esempi sono la custodia cautelare in carcere, gli arresti domiciliari o il divieto di espatrio. Oggi, può essere applicata solo in tre casi: se sussista il pericolo di fuga, se ci sia il rischio di alterazione delle prove, oppure, se esista l’ipotesi di reiterazione del reato. Se vince il “sì”, viene eliminata la reiterazione del reato dalle motivazioni per disporre misure cautelari. Rimangono il pericolo di fuga e di alterazione delle prove. Chi è per il “sì” sostiene che oggi vi sia un abuso delle custodie cautelari e si mettano spesso in carcere persone non condannate, in violazione del principio della presunzione di innocenza. La reiterazione del reato è infatti la motivazione più frequente per disporre una custodia cautelare. Chi è per il “no” sostiene che se cambia la legge sarà molto difficile applicare misure cautelari a persone indagate per gravi reati, come corruzione, stalking, estorsioni, rapine e furti. Non ci sarebbe, inoltre, alcuna garanzia di non mettere in carcere persone innocenti, poiché le altre motivazioni rimangono applicabili. In questo quesito voterò “NO” poiché ritengo che questa modifica sia errata in quanto così facendo si trascura la pericolosità sociale del reo in delitti di particolare allarme e gravità. Preciso che io sarei per la abolizione della custodia cautelare in carcere – salvo per gravi reati – e per la esecutività immediata della sentenza di primo grado.
Sul quesito concernente la separazione delle carriere invece cosa pensa?
Nel corso della loro vita, i magistrati italiani possono passare più volte dal ruolo di pubblici ministeri (cioè coloro che si occupano delle indagini insieme alle forze dell’ordine e svolgono la parte dell’accusa) al ruolo di giudici (cioè coloro che emettono le sentenze sulla base delle prove raccolte e del contradditorio tra l’accusa e la difesa). Se vince il “sì” i magistrati dovranno scegliere, all’inizio della loro carriera, se svolgere il ruolo di giudici oppure di pubblici ministeri, per poi mantenere quel ruolo per tutta la vita. Chi è per il “sì” sostiene che separare le carriere garantirebbe una maggiore imparzialità dei giudici, perché così sarebbero slegati per attitudini e approccio dalla funzione punitiva della giustizia che appartiene ai pubblici ministeri. In altre parole, il fatto che una persona che per qualche anno si abitui ad “accusare” e poi venga messa nella posizione di “giudicare”, non sarebbe una condizione ideale per il sistema democratico. Chi è per il “no” sostiene che la separazione delle carriere non sarà comunque efficace dato che la formazione, il concorso per accedere alla magistratura e gli organi di autogoverno dei magistrati resterebbero in comune. Inoltre, c’è chi teme che in questo modo i pubblici ministeri sarebbero sottoposti a un maggiore controllo da parte del Governo, finendo per diventare una sorta di “avvocati” della maggioranza che controlla l’esecutivo. In relazione a questo quesito voterò “SÌ” poiché ritengo che il rito accusatorio e l’articolo 111 prevedano il “giusto processo” e il confronto paritario tra accusa e difesa e presuppongono che a giudicare sia un giudice terzo. Detta in maniera più elementare: l’accusa deve provare la colpevolezza dell’imputato; la difesa, deve provare la non colpevolezza dell’imputato; il giudice, valuta e decide in maniera imparziale. L’anomalia che andrebbe eliminata, in conformità a quanto poco prima spiegato, è che il giudice per essere imparziale non possa far parte della stessa compagine del pubblico ministero.
Veniamo al quesito sull’elezione del Consiglio Superiore della Magistratura.
Il Consiglio superiore della magistratura è l'organo di autogoverno dei magistrati, con lo scopo di mantenerli indipendenti rispetto agli altri poteri dello Stato. È composto da 24 membri, eletti per un terzo dal Parlamento e per due terzi dai magistrati. Oggi, per candidarsi, è necessario presentare almeno 25 firme di altri magistrati a proprio sostegno. Queste firme, oggi, sono spesso fornite col supporto delle varie correnti politiche interne alla magistratura. Se vince il “sì” non sarà più necessario l’obbligo di trovare queste firme, ma basterà presentare la propria candidatura. Chi è per il “sì” sostiene che in questo modo i magistrati potrebbero sganciarsi dall’obbligo di trovare accordi politici e dal sistema delle correnti, così da premiare il merito piuttosto che l’adesione politica. Si limiterebbe anche la lottizzazione delle nomine, cioè la spartizione delle cariche tra i diversi orientamenti politici. Chi è per il “no” afferma che la riforma non eliminerebbe il potere delle correnti poiché interviene in modo poco rilevante. Ma c’è anche chi non vede le correnti come un sistema negativo in sé, in quanto aggregazioni di persone che condividono ideali e principi comuni. Di tutti i quesiti penso che questo sia il meno significativo. Voterò “NO” poiché ritengo che il potere delle correnti resterebbe uguale. Occorre una riforma organica e complessiva e non settoriale e parziale.
Quinto quesito: valutazione dei magistrati.
In Italia, i magistrati sono valutati ogni quattro anni sulla base di pareri motivati, ma non vincolanti, dagli organi che compongono il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio direttivo della Corte di Cassazione. In questi organi, insieme ai magistrati, ci sono anche avvocati e professori universitari, ma soltanto i magistrati possono votare nelle valutazioni professionali degli altri magistrati. Se vince il “sì” anche avvocati e professori universitari avrebbero il diritto di votare sull’operato dei magistrati. Chi è per il “sì” sostiene che questa riforma renderebbe la magistratura meno autoreferenziale e la valutazione dei magistrati più oggettiva. Chi è per il “no” è convinto che non sia opportuno dare agli avvocati il ruolo di valutare i magistrati, dato che nei processi i pubblici ministeri rappresentano la controparte degli avvocati. Le valutazioni potrebbero, per questo motivo, essere pregiudizievoli e ostili. Allo stesso modo, i magistrati potrebbero essere influenzati dal trovarsi di fronte a un avvocato coinvolto nella sua valutazione professionale. In questo referendum voterò “NO” perché credo che si potrebbero creare commistioni e favoritismi tra le due categorie. Sono favorevole a che le valutazioni sui magistrati possano essere espresse dai docenti universitari a tempo pieno. Opterei tuttavia per un diverso metodo di valutazione basato sulla qualità, per evitare personalismi, favoritismi, raccomandazioni e influenze politiche, su criteri oggettivi di merito, che tengano conto della qualificazione, integrità, abilità, efficacia del singolo magistrato.
Chiudiamo con un ultima domanda. Ci illustra una sua ipotesi di riforma della giustizia possibile ed auspicabile?
Per cominciare a riformare la giustizia penale vedo tre strade da percorrere. La prima: porre rimedio all’inefficiente organizzazione del “Sistema Giustizia”. Come dico sempre, noi italiani abbiamo i migliori magistrati d’Europa che al tempo stesso sono i peggiori in fatto di organizzazione. La seconda: ridurre l’eccessiva “criminalizzazione” di molte condotte che potrebbero essere risolte con sanzioni non di natura penale. La terza: agire sulla convenienza ad affrontare sempre il giudizio di appello che porti costantemente solo benefici al condannato. Iniziando da questi tre fattori sono certo si porrebbe rimedio anche all’eccessiva durata dei processi in Italia. Per quanto riguarda la magistratura dal 1994 sono per la discrezionalità dell’azione penale e la separazione delle carriere tra p.m. e giudici. Se hai un processo penale accusatorio, l’azione penale non può essere obbligatoria, perché altrimenti s’ingolfano gli uffici giudiziari. Vassalli e Pisapia quando scrissero il codice avevano in mente un minimo di dibattimenti celebrati, una discrezionalità dell’azione penale e l’uso rilevante dei riti alternativi. La separazione delle carriere completerebbe una riforma ormai improrogabile. I magistrati che decidono di fare i politici non possono tornare a fare i giudici. Sul tema della responsabilità disciplinare dei magistrati sono convinto che sia necessaria una responsabilità civile diretta per errore professionale. Non mi sembra corretto che tutte le figure professionali siano soggette a rischi sempre più elevati e si escluda la categoria dei magistrati. Il magistrato esercita un potere dell’uomo sull’uomo che decide della libertà ed è perciò in grado di rovinare la vita delle persone sulle quali è esercitato. Perché non dovrebbe risponderne se nell’esercizio di tale potere sbaglia grossolanamente?
Vincenzo Musacchio, giurista, criminologo forense, associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). Ricercatore dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra.