A 25 anni dalla morte di Giuseppe Di Matteo lettera aperta della scrittrice Marina Paterna
A 25 anni dalla morte di Giuseppe Di Matteo, lettera aperta dell’autrice Marina Paterna: Ti farò vivere per sempre.
Marina, che ha descritto la vicenda Di Matteo nel libro "HO SCONFITTO la mafia. IO SONO VIVO!", con l'aiuto del padre Santino Di Matteo, ricorda che Giuseppe era il bambino che tutti ricordiamo nella foto passata alla storia, mentre era a cavallo, immortalato mentre salta l’ostacolo.
Lo stesso bambino che l’11 gennaio viene barbaramente ucciso, prima strangolato e poi dissolto nell’acido per volontà di Giovanni Brusca. Perché non solo si doveva cancellare ogni traccia del suo piccolo e innocuo corpicino, per non essere scoperti, ma non si dovevano neanche lasciare le ceneri. Era il torto più grande che si potesse fare alla famiglia. Privarla del sepolcro su cui piangere.
«Io credo che in questo giorno la Sicilia tutta si alzi in piedi e abbassi il capo, come fosse in Chiesa. Mortificata. Perché nessun siciliano onesto avrebbe mai voluto macchiarsi di un crimine così grande che non ha commesso.
Anche la mafia stessa ammise dopo alcune dichiarazioni: “Fu peggio di una sconfitta militare, perché cosa nostra perse la faccia ed il rispetto della gente.”
Fu proprio Giuseppe, un bambino di 11 anni che, come per effetto della legge del contrappasso, aveva se non sconfitto definitivamente la mafia quantomeno indebolito.
Ormai è come una ricorrenza familiare per me. Attendo ogni anno quelli che per me sono divemntati due appuntamenti. L’11 gennaio e il 23 novembre.
Sono passati 12 anni dal giorno in cui ho deciso di raccontare la tua storia ed io ancora non riesco a dimenticare l’eco che hai lasciato. Ho visto l’ultimo sudicio bunker in cui sei stato segregato, nel casolare abbandonato.
Ho visitato la casa di Giovanni Brusca, scortata dalla polizia e dal sindaco del tempo. E mentre salivo quelle scale vedevo solo Santini scoloriti e l’unica cosa che riuscivo a pensare era: perché? Perché tu, un bambino innocente?
Sono entrata nella tua prigione ridipinta di bianco, come se qualcuno avesse voluto, per restituirti dignità e calore, cancellare la muffa che respiravi. Ho visto il tuo letto e le finestre che però non c’erano. Avrei voluto prendere un gessetto colorato e disegnarle per farti scappare. Chissà quante volte ci hai provato tu. E adesso che non ci sei più…
Tutti in piedi con il capo chino. Silenzio! Questo è il tuo giorno, Giuseppe.»