Si può vivere senza bellezza? Si può vivere senza arte? A queste domande che sono un pleonasmo si è aggiunta una riflessione sul senso della parola resistenza e sulla possibilità oggi in Italia di un'arte pubblica. E per arte pubblica intendo non quel fantasma di arte prodotta con sovvenzioni statali (inesistenti o disperse in rivoli di dubbia qualità e utilità) ma un'arte che sia al sevizio della comunità, fruibile gratuitamente e che soprattutto assolva al compito di stimolare riflessioni.

Così in un momento in cui dopo un anno le cose non sembrano cambiate affatto, tra musei chiusi, gallerie frustrate da una programmazione difficile e a singhiozzo, artisti costretti a relegare al virtuale una materia che ha bisogno dello sguardo fisico per raggiungere l'anima, ho accolto con entusiasmo l'idea visionaria di Erk14: trasformare in le finestre di un palazzo storico in occhi che raccontassero una storia per tutti e di tutti. Il mio compito di curatore è stato quello di costruire un habitus all'idea, di trasformarla in un meta-progetto, di trovare il sito adatto e soprattutto i mecenati che accogliessero l'idea percependo lo stesso entusiasmo. Ho trovato tutto in Palazzo Zoya, palazzo medievale nel cuore di Asti, a due passi dalla Cattedrale, la cui proprietà ha accolto velocemente e senza riserve l'iniziativa. Non amo interlocutori non sensibili che non conoscano la lingua del cuore, lungaggini burocratiche e tutte quelle pastoie che poi mi portano inesorabilmente tutte le volte a dire “chi me l'ha fatto fare”.

Così le finestre di palazzo Zoya si sono trasformate in sei tableau vivant in cui Erk14 ha raccontato con la levità di un linguaggio dolente e colorato la storia di questi lunghi mesi chiusi. Lockdown, smart working, dad, sono state le parole che ci hanno accompagnato in questa apparente nuova normalità. La realtà è che siamo chiusi: scuole chiuse, negozi chiusi, musei chiusi, teatri chiusi, noi chiusi in casa, la testa piena di preoccupazioni e il cuore indurito tra ricordi e rimpianti. In un mondo che ha dovuto improvvisamente modificare un parametro prossemico (la distanza sociale) sarebbe compito dell'arte aprire e progettare un nuovo mondo... Erk14 Lo fa in maniera imprevista e irrituale, assolutamente fisica, lontana dalle derive di una virtualità cui vorrebbero abituarci, utilizzando senza riserve di tratto e di colore tutti gli stilemi del suo linguaggio. Vediamo un attimo chi è l'artista... ERK14 nasce nel 1986.

Artista, art director, designer, dopo 11 anni di lavoro presso agenzie di comunicazione tra Napoli, Roma e Milano, la creazione di un proprio brand di streetwear e le collaborazioni come designer con altri marchi moda, nel 2014 intraprende la ricerca artistica stimolato dalla necessità di raccontare le proprie riflessioni sulle dinamiche sociali, spesso frutto di disagi non dichiarati. Inizia così un’ intensa ricerca iconografica e iconologica sulle simbologie degli oggetti di uso comune associati a impulsi e a interazioni anche accidentali del quotidiano. Senza mai fornire una visione univoca delle sue opere, ma attraverso l’indicazione di possibilità infinite Erk14 lascia al pubblico la scelta di sviluppare la propria interpretazione. Partito dall’uso rigoroso del bianco e nero, dall'apparente semplificazione semantica e dalla resa grafica e stilistica “impersonale” e senza “sbavature” ma dalla tecnica strabiliante, nel 2020 inizia a sperimentare proprio in lockdown, il colore come medium di maggiore empatia con lo spettatore.

Così chi si troverà dunque a passare per via Carducci 65 potrà visitare en plein air una mostra in assoluta sicurezza, senza alcuna barriera fisica tra sé e l'opera se non l'aria di questa nuova strana primavera, senza alcun brusio se non quello dei propri pensieri e il tuffo al cuore delle proprie emozioni. Qui in un pop object che mischia oggetti di archeologia quotidiana (tazze e caffettiere, sedie e finestre aperte sul niente, sole e lampadine, tavoli e specchi, forbici e fiori, pattern eleganti da tappezzerie british decor) c'è tutta la storia di un anno vissuto davanti agli schermi di tv, pc, smartphone e videogiochi, in un'ansia bulimica di notizie e di cibo, nascondendo tra le tende e le coperte improvvisi tzunami emotivi che non sapevamo di possedere. E poi c'è l'armadio dei ricordi, durissimo da aprire senza la possibilità delle lacrime davanti a chi non abbiamo salutato, senza abbracci. Le spine di giorni e di giochi sbagliati e le fiamme di un dolore in gabbia. Uno story-board dal maturo sincretismo tra surrealismo, pop e metafisica, sempre sorretto però dalla speranza di un colore assolutamente onirico e innaturale e aperto al volo finale degli aquiloni.

Mai però avrei pensato che regalando insieme all'artista, alla proprietà di Palazzo Zoya questa installazione che ho inteso come una sorta di improvviso e imprevisto flashmob mi sarei trovata di fronte a un esperimento sociale...e mai l'ideazione di un titolo si è dimostrata più ricca di senso. In questi giorni, con l'orgoglio e la commozione della madre che guarda il figlio, passo sovente davanti a Palazzo Zoya, riguardo ogni quadro, osservo le sue variazioni al mutare della luce, fotografo cercando quell'attimo che l'occhio magari non percepisce. Eppure vedo passare davanti a me persone che camminano a capo chino, senza neanche domandarsi cosa io fotografi, senza alzare lo sguardo. E allora capisco che forse abbiamo perso, o forse no, se anche solo un bambino lì davanti sarà in grado di guardare, rimanendo davvero #aocchiaperti

(photo credit © Barbara Galli)