«Io non sono in grado di restare nella palude. Uno sta al potere finché può cambiare se dobbiamo lasciare le cose come stanno vengano altri che son bravi a galleggiare».

Adesso, a poco più di due settimane dal voto, il nuovo messaggio di Matteo Renzi ritorna ad essere il vecchio messaggio con cui aveva iniziato la campagna referendaria: se non mi votate vado via.

Laudata domine, potrebbe dire qualcuno. Non è così invece per altri che considerano tale possibilità come l'inizio della deriva verso il populismo. La caduta di Renzi, sarebbe come la Brexit oppure l'elezione di Trump a presidente degli Stati Uniti.

Così è quello che ha ipotizzato Eugenio Scalfari nel suo fondo domenicale su Repubblica. Il fondatore del quotidiano, bontà sua, ha riconosciuto, in relazione al voto americano, una certa logica nel «fatto che le masse rabbiose abbiano manifestato anche i motivi della loro sofferenza» e che, per tale motivo, e che «la nuova classe dirigente [applichi] politiche che tengano conto dei disagi esistenti e quindi siano orientate soprattutto a attenuarli o addirittura ad abolirli», ma dopo aver bollato tale classe dirigente come populista ha anche lanciato l'allarme sul fatto che se Renzi non vincesse il referendum, allora il populismo avrebbe davanti a sé la strada spianata verso il governo del paese, con i 5 Stelle quali candidati più attendibili come inquilini di palazzo Chigi.
Ipotesi che ha fatto rabbrividire, inorridire, l'ex direttore che vede i grillini come esempio perfetto di populismo.

Così, Matteo Renzi, nell'ennesima comparsata tv, stavolta di nuovo a Che Tempo Che Fa condotta dal profeta del lecchinismo televisivo Fabio Fazio, ha di nuovo riproposto lo slogan se un mi votate, me ne vo, aggiungendo che «la politica non è l'unica cosa che conta nella vita».
Affermazione, quest'ultima che, pronunciata da uno che ha fatto della menzogna uno stile di vita, ha un'attendibilità scarsa, se non pari allo zero.

Un'ultima considerazione, la merita il populismo che, in base alle definizioni correnti,  promuoverebbe una rappresentazione idealizzata del popolo finalizzata ad un’esaltazione di quest’ultimo come portatore di istanze e valori positivi (prevalentemente tradizionali), in contrasto con i difetti e la corruzione delle classi dirigenti, a cui si aggiunge la tendenza a svalutare forme e procedure della democrazia rappresentativa, privilegiando modalità di tipo plebiscitario, e la contrapposizione di nuovi leader carismatici a partiti ed esponenti del ceto politico tradizionale.

Letta con onestà tale definizione di populismo, è proprio sicuro Eugenio Scalfari che Renzi non sia un populista? E che non lo sia più di un Berlusconi, di un Salvini o di un movimento come quello dei 5 Stelle?