Oggi che ho un'età, quella in cui ancora permane un minimo di slancio prima che la corrosione delle cellule  faccia tornare impudenti per non vedere la morte, voglio scriverti, nonno, anche se idealmente queste parole sono per tutti gli altri nonni, e prima ancora, per le generazioni che ci hanno preceduto, facendo di noi ciò che siamo.

Ti chiamavi Leonardo, un nome poi venuto di moda per via di un celebre attore hollywoodiano. Nascesti nel 1899, in un luogo di grande bellezza e suggestione, che certamente Giorgio Bocca non conosceva, perché certi signori modaioli vanno per vetrine, mica approfondiscono; e se lo fece in seguito Carlo Levi, fu solo perché lo spedirono a forza dalle vostre parti, e lui pure, infine, con tutta la sua maestria e cultura, non andò oltre una descrizione di miserabilità: la stessa che al tempo si sarebbe trovata un po' ovunque, ma vallo poi a spiegare.

 Gli sconfinati pianori della Basilicata del nord, un tempo boschiva e poi depredata della sua vegetazione, terreno di scorribande di invasori e "colonizzatori" rispettosi di quelle arcaiche civiltà come gli schiavisti nel terzo mondo, videro la tua infanzia difficile. Tu eri bello, quasi alto per l'epoca, e ti sarebbe piaciuto studiare, ma le famiglie contadine non ne avevano la possibilità; così ti adattasti a quel duro suolo, non fertile come quelli padani, dove il seme butta frutti con maggiore facilità. Eri il primo di cinque figli, ci si aspettava molto da te.

 Ma ecco, la patria fatta da qualche decennio, ti chiamò. Avevi l'età in cui un ragazzo del nord est di oggi pensa soprattutto a succhiare paghette o agli spassi del sabato sera; mentre i suoi avi, scontenti dell'Austria, credettero bene che associarsi all'Italia sarebbe stato più conveniente e ti deportarono sul Carso, per una guerra che non avevi voluto né ti riguardava.

 Riuscisti a scamparla e a tornare a casa. Come allora si usava, cercasti moglie e trovasti la nonna, un'esile ragazza dagli occhi azzurri che ti avevano stregato. La vostra vita non fu facile, era solo lavoro e lavoro, su quei campi altrui, in balia degli spietati sovrintendenti dei padroni lontani.

 Infine, a suon di sacrifici inenarrabili, riusciste a emanciparvi, a comprare qualche terreno tutto per voi, una casa, degli animali; e vivevate dei prodotti della terra, con i vostri tre figli.

 La seconda guerra mondiale non toccò più di tanto quelle zone remote, se non facendo sentire maggiormente la morsa delle ristrettezze quotidiane. Finì anch'essa, in qualche modo. E sembrava che finalmente si potesse tirare il fiato.

Se a qualcuno interessasse conoscere la realtà di allora, potrebbe leggere le pagine di Rocco Scotellaro, per esempio; o, per addentrarsi nel più intimo spirito lucano, le poesie di Sinisgalli, colui di cui il non compianto Gianni Brera diceva " amo le sue opere, ma preferisco essere lombardo".

 Quando ci siamo conosciuti avevi già passato i sessanta, ma il tuo aspetto era intatto: snello, elegante anche con i calzoni di fustagno e gli scarponi, il cappello un po' western sempre in capo, severo, arcigno, in moto perenne: per te non esisteva l'ozio e imponevi quella frenesia anche a nonna Carmela, più amante di qualche spazio di relax, appassionata di ballo.

 Non lasciavi mai il tuo territorio; eccettuata la parentesi bellica, venisti al nord solo una volta, in visita ai figlioli ormai "genovesi".  E quanto eri rigido nelle tue convinzioni! Riuscimmo a trascinarti al mare una volta, ma non ti togliesti nemmeno le scarpe: eri scandalizzato dalle nudità, peraltro assai più castigate di ora. A tavola, si doveva stare composti e mangiare tutto. La nostra "schizzinoseria" veniva da te aspramente valutata, come una viziosità appresa in "alta Italia".

 Attingevate l'acqua alla fontana grazie alle acrobazie di nonna che, dopo aver lavato i panni curva per ore, tornava portando in equilibrio sulla testa otri e conche e per mano enormi secchi, senza spandere una goccia, perché  sennò fioccavano severi rimbrotti: eri un marito rispettoso, ma certo non femminista! La sera, facevate luce con lumi a gas che quasi mi facevano svenire, nelle estati che trascorrevo con voi.

 Non c'era la televisione; e le note finalmente si ascoltarono nei paraggi, quando noi nipoti prendemmo a scorrazzare con le nostre radioline e i mangiadischi, sputando quella musica che non capivate;  tu, nonno, eri rimasto alla mazurca di Migliavacca, che doveva ricordarti qualche antica avventura e un giorno, nel tentativo di farmela ballare con te, cademmo a terra tra le risate generali. Né dimentico una gita a piedi per le tue proprietà, ora non trascurabili. Volevi mostrarmele, ma il tempo volava: ero stanca, mi dovesti riportare indietro a cavalluccio.  

Desideravi tanto, da uno dei tuoi figli maschi, un erede che potesse "portare avanti il cognome", e fu palese il dispiacere per il suo mancato arrivo, ma fosti sempre tenerissimo con noi femminucce.  

Finché un giorno, stava finendo l'estate dell'inquieto '68 che voi avevate intravisto solo attraverso le minigonne delle nipoti più grandi, ricevemmo una telefonata ( non da casa tua, non avevate neppure il telefono). Ci comunicavano che avevi avuto qualche problema, non ti sentivi bene.

Non riuscivo a crederci. Ti avevo lasciato in forma smagliante. Un giorno mi avevi chiesto di leggerti la mano e in effetti avevo notato che la linea della vita non era lunghissima...ma erano tutte fesserie, avevo subito scordato il mio maldestro tentativo di chiromanzia. 

Invece il verdetto non lasciava dubbi. Trascorresti tre mesi di inferno, tra atroci dolori non leniti in quell'ospedale dimenticato dal mondo. A Natale venni a trovarti, dopo un interminabile viaggio in treno. " Ci vediamo quest'estate, nonnino" dissi baciandoti, ma tu rispondesti " lo sai che non ci vedremo più". E di lì a poco te ne andasti.  

La nonna non resistette e ti seguì un anno dopo. Ora nella vostra casa c'era tutto, acqua, gas, elettricità: peccato fosse rimasta vuota. L'abbiamo avuta fino agli anni novanta, ma ormai non si riusciva più a  tener dietro alle incombenze e la dovemmo vendere. Qualche anno fa l'ho rivista: non ci sono più quelle succose susine e le piccole pere di cui ero ghiotta, era divenuta un bel villino di abitazione, ma l'importante era che ancora vivesse.

 Ecco chi eri, chi eravate, voi meridionali "terroni", "scansafatiche", "mantenuti dal nord". Quando penso che a dirvelo sono dei penosi individui che il lavoro, quello vero, non sanno neppure dove stia di casa, i peggiori pensieri di rivalsa mi attraversano la mente; ma poi rifletto che non meritano nemmeno i miei pensieri.