Save the Children, in un comunicato diffuso venerdì, ha esortato  la comunità internazionale a usare la sua influenza con le parti in conflitto per cercare il percorso più rapido possibile per contenere l'escalation degli scontri tra Hamas e Israele. Intanto il numero delle vittime continua a salire.

Save the Children ha reso noto che almeno 31 scuole, frequentate complessivamente da oltre 24.000 bambini, e una struttura sanitaria a Gaza sono state danneggiate dagli attacchi aerei israeliani. Una scuola è stata danneggiata da razzi anche nel sud di Israele. Le crescenti violenze nelle comunità all'interno di Israele sono motivo di grande preoccupazione.

Le famiglie di Gaza hanno trascorso la festività dell'Eid, che segna la fine del Ramadan, rifugiate nelle loro case. “Risuonano forti esplosioni tutto il tempo, sono molto improvvise. Viviamo continuamente nella paura, nello stress e nell'orrore. Anche durante l'Eid, non possiamo festeggiare né indossare i vestiti della festa, non abbiamo visitato nessuno, ci hanno tolto la gioia di Eid " ha detto a Save the Children Dalia (nome di fantsia), 10 anni. “Questa mattina io e i miei figli abbiamo lasciato la stanza in cui eravamo rifugiati per sgranchirci le gambe quando improvvisamente è stato colpito l'edificio della porta accanto. Ho sentito una forte esplosione e i bambini urlavano. Erano così spaventati. Siamo corsi a nasconderci nella nostra camera da letto e le esplosioni sono continuate. Ne abbiamo sentita una seconda e una terza e forse di più, ho perso il conto. I detriti stavano cadendo e potevamo anche sentire i vicini urlare. Dopo che la polvere si è posata, abbiamo visto le ambulanze che venivano a prenderli. Chissà cosa potrà ancora succedere" ha raccontato Mazen Naim, Communication Officer di Save the Children, che è stato costretto a rifugiarsi da lunedì scorso con sua moglie e i loro tre figli nella camera da letto.  “Stiamo continuando a dire a nostra figlia e nostro figlio che i pesanti bombardamenti sono celebrazioni, fuochi d'artificio, un bel gioco! Cerchiamo in tutti i modi di distogliere la loro attenzione da questa orribile atmosfera, ma senza riuscirci" ha raccontato Ibrahim Abu Sobeih, Field Manager di Save the Children a Gaza, che è stato costretto ad evacuare con la sua famiglia dal quartiere in cui abitano.
La popolazione e le infrastrutture civili devono essere protette dagli attacchi, nel rispetto del diritto internazionale umanitario, ha dichiarato Save the Children, aggiungendo che tutte le parti devono porre fine immediatamente ai bombardamenti. La comunità internazionale deve fare ogni passo possibile e usare la sua influenza per fermare una situazione che è sull'orlo del baratro. Bisogna porre fine alla violenza e affrontare le cause che la determinano. 

Le cause sono molto semplici e risalgono al furto di terre e case perpetrato a danno dei palestinesi ad opera dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che, con il Piano di ripartizione della Palestina sancito alla fine del 1947, portò il 14 maggio del 1948 alla proclamazione dello Stato di Israele, di cui ieri appunto ricorreva l'anniversario. Oggi, per la cronaca, per i palestinesi è il giorno della Nakba (la catastrofe), l'esodo forzato di circa 700.000 persone dai territori occupati da Israele nel corso della prima guerra arabo-israeliana del 1948 e della guerra civile che la precedette.

Israele impedì l'esercizio del diritto di rientrare, sancito dalla risoluzione 194 delle Nazioni unite, mentre i profughi venivano sistemati in campi gestiti dai Paesi arabi ospitanti e dalle organizzazioni internazionali. Nella Conferenza di Losanna (1949), Israele propose il rientro di 100.000 profughi, in cambio del riconoscimento arabo dei confini stabiliti dalla guerra. Gli Stati arabi avrebbero dovuto inoltre assorbire il resto dei palestinesi, ma la proposta fu respinta per ragioni morali e politiche, con l'eccezione parziale della Giordania, e ai profughi non fu riconosciuta la cittadinanza degli Stati nei quali si trovavano i campi. La difesa del diritto al ritorno è da allora un punto fermo delle rivendicazioni politiche palestinesi nei colloqui di pace con Israele (fonte Treccani).

Dopo la guerra del 1967 la questione palestinese è ulteriormente peggiorata, grazie al sostegno dello Stato ebraico da parte della comunità internazionale, Stati Uniti in primis, per ragioni geopolitiche ed economiche, creando una situazione che Moni Ovadia - attore, musicista e scrittore di origine ebraica - descrive in questi termini:

"La politica di Israele è segregazionista, razzista, colonialista. E la comunità internazionale è di una parzialità ripugnante. Tranne qualche rara eccezione, paesi come la Svezia e qualche paese sudamericano, non si ha lo sguardo per vedere che la condizione del popolo palestinese è quella del popolo più solo, più abbandonato che ci sia sulla terra, perché tutti cedono al ricatto della strumentalizzazione infame della shoah". 

Riassumendo, gli ebrei israeliani hanno creato uno Stato basato sull'apartheid con il consenso complice della comunità internazionale, che ignora i trattati internazionali per il rispetto dei diritti umani che lei stessa ha approvato, permettendo ad Israele di continuare a mettere in atto politiche razziste, utilizzando la shoah come arma di ricatto e giustificazione.
 


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