Il Dux romano come mito del condottiero delle genti, il Risorgimento frainteso di Garibaldi, il brigantaggio meridionale (capitolo 4)
Per parlare di brigantaggio torniamo alla Roma antica. Infatti tracce se ne trovano negli annali, circa il secondo secolo A.C.; e Cesare stesso dovette occuparsene. Il Medio Evo ne vide l'imperversare, e va detto che il fenomeno riguardò tutta la penisola.
Cosa troviamo? Di tutto in effetti. La pletora consisteva di individui provenienti da ceti poveri, ma non ne disdegnavano l'accosto anche nobili anticonformisti, come Ghino di Tacco.
Spesso queste bande grassavano sugli strati sociali miserabili da cui essi stessi provenivano, con scorribande, ladrerie, violenze; a volte erano animati da buone intenzioni; talora erano scarti della buona società, incappati in disavventure (preti spretati, nobili decaduti); spesso venivano usati da poteri che cercavano di lottare per non soccombere (i Lorena in Toscana, i Borboni al sud). Alcune figure erano leggendarie (Pelloni in Romagna, Musolino in Calabria). Nel sud si contano anche presenze femminili (le "brigantesse").
Chissà se bande moderne dedite a rapine e violenze o addirittura aggregazioni terroristiche organizzate non vi si siano ispirate: i Cavallero e i Vallanzasca, la Magliana, i Maniero, per la prima specie; sottomarche delle Brigate Rosse nella seconda.
L'epopea di Garibaldi è degna di un film, contiene aspetti romantici che lo saldano a un Che Guevara ante litteram e finisce per attirare l'attenzione sulla persona; noi adesso puntiamo in direzione delle speranze che alimentò sotto Roma.
Come si accennava, i revisionismi attuali non disdegnano veri e propri insulti, sicché ci si muove su un terreno infido. Ormai l'ex eroe è demonizzato da più parti, non per sua colpa: figurarsi quanto può interessare colpire una simile figura, peraltro già abbastanza detestata da borghesi e baciapile; si tratta di ideologia e vorremmo starne alla larga.
Veniamo al nostro amato Sud. Discorso a parte per la Sardegna, risucchiata dal Piemonte con la sua cultura maura/catalana, la sua natura selvaggia e i riti ancestrali relativamente poco toccati dall'invasione dell'Agha Khan prima e del duo Berlusconi/Putin dopo, abbiamo visioni in chiaroscuro delle altre regioni:
- la Sicilia del Verga. Gli sconfitti, i perdenti sempre, che nulla possiedono se non un piccolo potente locale per rivendicare i loro diritti: cosicché è emigrazione o sottomissione, e il dramma proseguirà tra guerre, banditismi interessati alla Giuliano ed esportazione dei padrini oltreoceano. Ci fu, è vero, il momento della speranza, infiammata al tempo dei Mille, ma presto si capì che, a parte una ferrea organizzazione statuale, poco di più il regno avrebbe fatto per la Trinacria: l'amministrazione locale era lasciata a se stessa e gestita mediante prebende dal signoraggio locale, trasformato in classe politica.
- la Calabria, estrema punta continentale, sede recente di stabilimenti divenuti noti come "cattedrali del deserto", abbandonati insieme alle loro scorie; e delle cui contrade si conservano immagini di povertà estrema fino a diversi decenni dopo la seconda guerra mondiale, miseria che si fa paradigma nel nome di un famoso paese, Africo, e di una scuola immortalata con i suoi alunni laceri.
- la Puglia grecizzante e sterminata, opulenta ma secca, in rincorsa d'acqua, ottenuta con l'acquedotto del Sele, ma pure sottraendola a chi l'aveva; unica regione sfuggita alle iconografie di donne nere, lì batte implacabile il sole e ci si veste di chiaro, ma in fondo non c'è molta differenza con il resto del Mezzogiorno, ed emigrare resta una buona alternativa.
- la Campania turbolenta di antica Grecia e Masanielli, di sole e mare e festival, dove la bella gente non perde di energia, ma il territorio muore.
- Abruzzo e Molise prima fratelli e poi divisi, stretti tra la cultura meridionale e la trazione romana che ne ha salvato in parte le sorti, ma se viene un terremoto, si torna al Belice o all'Irpinia.