Avrò avuto poco più di dodici anni, una ragazzina, lo squillo del telefono si innesta nei miei giochi pomeridiani: un caro amico di famiglia cercava mamma. Era uscita proprio da qualche minuto per delle commissioni nei dintorni di casa. Con la voce rotta mi chiede di riferirle un messaggio non appena fosse tornata “Il mio nipotino è andato via!”
Resto perplessa di fronte a quelle parole che portavano in sé qualcosa che non capivo. Parlava di un bimbo piccolo… dove poteva essere andato, da solo? Lo chiedo diretta, senza pensare troppo: Dov’è andato? La voce sommessa esita qualche secondo e mi raggiunge di nuovo, questa volta tremava “È morto!”
Mi colse così di sorpresa che ancora trova strada tra i ricordi ogni volta che le parole che ascolto non esprimono la realtà ma propongono qualcosa di diverso, forse di più accettabile per chi le dice e per chi le riceve. Tento di comprendere oggi, ma non ci riesco e mi scuserete, lo sforzo raccontato da alcune agenzie funebri nel circondare l’estremo saluto di un senso di “leggerezza” condito a sarcasmo attraverso pubblicità che a me personalmente lasciano un po' l’amaro in bocca. Non siamo mai stati abituati a parlare con consapevolezza e coscienza di morte: non vogliamo ci appartenga, è un futuro lontano che non deve entrare nei nostri pensieri, è un accadimento naturale della vita ma ci inquieta il solo pensiero. È giusto e sacrosanto.
Non vivremmo sereni. Qualche volta i nostri pensieri veleggiano intorno a quella parola quando i nostri anziani diventano davvero anziani e il pericolo che si affacci diventa palpabile. È giusto e sacrosanto. Allora mi chiedo: tentare di spazzare via con battute che vogliono essere “accattivanti”, ma tanto lontane dal dolore che un lutto porta in sé, è un modo per essere in linea coi tempi? Quali tempi? Tempi che trovano superato il dispiacere, il dolore per un nostro amato e dissacrano l’estremo saluto riducendolo a una battuta, a un risparmio economico? Ma davvero stiamo diventando questa società?
Vedo questi gran cartelloni in città, capiterà anche a voi; ne resto ogni volta sorpresa, colpita: questo distacco, questa lontananza, questo ridurre tutto, scomporlo in parti piccole e meno piccole dove il “prezzo offerto per il servizio” gioca il ruolo principale. Non dispiacere, non lacrime ma il fruscio dei soldi… che deve essere piccolo e insignificante. Risolutore di ogni problema. Un bel fazzoletto che asciughi tutte le lacrime dell’addio. I soldi, vediamo solo quelli. E così, nel giorno di un addio per sempre, nel giorno che non si può più rimandare, nel giorno che segna davvero il passo tra ieri e oggi, nel giorno che non offre sconti, qualcuno offre la soluzione… La soluzione: il fruscio dei soldi piccolo, piccolo!
Non è questo che agita i miei pensieri ma la vaporosità incombente su un momento che dovrebbe restare solenne, autentico, anche semplice e rispettoso. Espressione di una vita trascorsa, di un tempo che non c’è più, di ricordi che si rincorrono e illuminano le strade sulle quali camminerà chi resta. In quella chiesa o in quel luogo per il rito civile saranno gli occhi negli occhi, gli abbracci dati e ricevuti, le carezze che cercheranno la solennità della vita vissuta, il valore della vita conclusa, null’altro, se non flusso d’amore. Come fanno a unirsi in matrimonio il dissacrare il momento solenne con il dispiacere per il nostro amato? La domanda mi rincorre da tempo. Non ho trovato la risposta.