In nome del popolo italiano (prima parte)
Ad ogni passo la sete di verità e di giustizia diviene sempre più intensa ma inevitabilmente non viene appagata, la storia di questo Paese è caratterizzata da un susseguirsi di vicende tragiche: il periodo fascista, il conflitto mondiale, l’Anello, la strage di Portella della Ginestra, il piano Solo, i servizi segreti eversivi e totalitari, la strage di Piazza Fontana, il mancato golpe Borghese, la strage di piazza della Loggia, (…) la strage della stazione di Bologna (…….), Ustica, (….) Il ponte Morandi, (…). Quante sofferenze, quanti morti, quante ingiustizie! Nel tempo si sono moltiplicati i comitati dei parenti delle vittime, passano decine di anni e rimane l’ostinata amarezza di chiedere un atto di giustizia che non verrà mai. Ustica è uno degli esempi più degradanti di denegata giustizia: sono stati eliminati tutti i testimoni scomodi per nascondere i motivi e le responsabilità di chi? Cosa c’è di tanto inconfessabile da fare “terra bruciata” e soffocare la verità?
A distanza di più di mezzo secolo ancora si cercano i mandati di alcuni delitti eccellenti addirittura non si conoscono neanche gli esecutori materiali. In Italia è tragico essere dalla parte delle vittime ma è diventato ancor più scomodamente tragico essere cittadini delle copie pirata di uno stato/apparente che agiscono impunemente e liberamente con le quali siamo costretti di fatto a convivere e divenirne occasionali vittime indifese.
Se ancora non abbiamo realizzato quanto sia pericoloso affidare a certi personaggi i nostri destini è perché vi è una diffusa mentalità filo-mafiosa, parassita e passiva che spinge una buona parte dei cittadini a chiudersi agli interessi collettivi nell’illusione che così facendo manterranno i loro privilegi. Questi soggetti votano personaggi come ad esempio Pietro Lunardi esponente di spicco dell’ingegneria civile italiana appartenente al giro dei grandi appalti pubblici, costui ricoprì la carica di ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti e altre cariche istituzionali in ben due governi a guida Berlusconiana (II e III). Tra i suoi “capolavori” vi è la Legge Obiettivo – legge delega n. 433 del 21 dicembre 2001 con la quale l’assegnazione dei grandi appalti avveniva senza gara e i progetti erano di fatto esentati dalla valutazione d’impatto ambientale lasciando mano libera all’impresa appaltante di fare i suoi comodi sui tempi, sulla qualità e sui costi che lievitavano a dismisura inoltre permetteva infiltrazioni e manipolazioni di ogni tipo a danno degli interessi collettivi che ha provocato un aumento incontrollato del debito pubblico.
Tra le altre cose modificò il codice della strada e introdusse la patente a punti. Fu soprannominato “Pier Veloce” per le sue uscite infelici infatti la parola era più veloce del pensare. Lunardi aveva il “pregio” di dire pubblicamente quello che pensavano tutti i suoi colleghi imprenditori e di partito. Due esempi luminosi di sincerità “sfuggita la controllo dell’ipocrisia”.
Dopo avere introdotto la patente a punti, in camera caritatis, disse di "correre di notte a 150 all'ora e anche di più".
Ma quello che sconvolse maggiormente (ma nessuno ne chiese le dimissioni) furono le dichiarazioni pubbliche rilasciate nell’agosto del 2001 in merito alla realizzazione delle grandi opere pubbliche nel sud.
Il nostro encomiabile ministro delle Infrastrutture e Trasporti è passato alla storia per una dichiarazione lapidaria: “I problemi della mafia e della camorra ci sono sempre stati e sempre ci saranno, purtroppo ci sono, bisogna convivere con questa realtà. I problemi di criminalità ognuno li risolva come vuole. (..) Questo problema però, non ci può impedire di fare le infrastrutture.” Ci mancherebbe altro, tanto paga Pantalone.
A Palermo esplose la rivolta dei familiari delle vittime e dei magistrati. A poco servì, in serata, una sua minimizzazione: "La mia battuta è stata forse imprecisa o infelice. Lo Stato combatterà la malavita organizzata con impegno sempre crescente ma non è onesto illudere i cittadini sulla possibilità di sanare dall’oggi al domani questi mali profondi della nostra società “. Nel frattempo veniva accusato di conflitto di interessi infatti come ministro dei Lavori Pubblici, avrebbe avuto interesse a pilotare le decisioni governative per favorire le ditte di famiglia, quali la Rocksoil, di proprietà della moglie, come anche la società Tre Esse, controllate sempre dalla famiglia Lunardi e impegnate nella progettazione e nella realizzazione di alcuni rami della rete ferroviaria ad alta velocità (TAV). Il 27 luglio 2006 l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato delibera che l'ex ministro non ha violato la legge sul conflitto d'interessi. L’AGCM era composta da 5 membri nominati dal Parlamento, dal 2011 ridotti a 3. Intervistato da un programma televisivo dichiarò che la società della moglie (Rocksoil) per evitare il conflitto d’interessi avrebbe lavorato esclusivamente all’estero. C’è chi può!
Arriviamo ai nostri giorni, è stata emessa la sentenza per il processo “Trattativa Stato mafia” con un esito estremamente originale e sconcertante, senza entrare nelle “raffinatezze” legali che hanno determinato tale risultato, abbiamo tre elementi apparentemente discordanti: due parti chiamate in causa, una assolta e l’altra condannata pesantemente; la conferma della validità dell’impianto accusatorio e soprattutto la sentenza di assoluzione in primo e secondo grado di Mannino. Si è passati da una condanna di tutti gli imputati in primo grado alla conferma delle pene per i mafiosi e un’assoluzione per i colletti bianchi compreso dell’Utri con una motivazione “dedicata”.
Tale “soluzione” era già nell’aria e preannunciata da un articolo comparso su Il Foglio nel 2013, che riportava la tesi dell’illustre penalista Giovanni Fiandaca il quale sosteneva che “gli intermediari non mafiosi della trattativa Stato-mafia agivano sorretti dalla prevalente intenzione di contribuire a bloccare futuri omicidi e stragi: un obiettivo, dunque, in sé lecito, addirittura istituzionalmente doveroso”. Ecco perché il fatto non costituirebbe reato. Secondo la tesi del professor Fiandaca, qui manca il dolo. L’azione di Mori e De Donno, come scriveva il penalista, mirava a “l’obiettivo salvifico di porre argine alle violenze mafiose e non già di supportare Cosa Nostra nei suoi attacchi contro lo Stato”.
Infatti sarebbe stato assurdo per la corte di secondo grado invalidare l’impianto accusatorio, significava tacciare di incompetenza la Procura di Palermo, il Gip, i PM, gli inquirenti e la corte di primo grado, non solo, significava non tenere conto delle dichiarazioni rilasciate in sede di giudizio a Firenze per il processo per la strage dei Georgofili dal gen. Mori dove ammise di aver cercato un contatto con la mafia per concludere un accordo.
Ad una trattativa segue un accordo o una rottura; nel caso specifico l’accordo tra le parti c’è stato ma si omette di esplicitare pubblicamente i termini di questo accordo: sul piatto sicuramente c’è finito Riina ma non l’organizzazione mafiosa infatti non è stata eseguita la perquisizione nella casa del boss fatto arrestare da Provenzano che a sua volta si garantiva una lunga e indisturbata latitanza permettendo nel frattempo alla mafia di evolversi e diventare meno sanguinaria ma più pericolosa infiltrandosi nelle maglie dell’economia sana. Nella casa di Riina era conservato l’archivio dove erano racchiusi molti segreti e le operazioni affaristiche dell’organizzazione criminale. Un elemento costante è la mancanza di prove documentali che attestino con certezza granitica le attività della mafia, lo stesso “papello” che affiora in tante testimonianze attendibili perché sostanzialmente concordi tra loro non si è mai trovato.
La mafia sa curare sempre molto bene i suoi interessi per questo sono convinta che su quel piatto ci siano andati anche accordi economici e un allentamento del regime 41 bis per un buon numero di detenuti per mafia. Il ministro della Giustizia pro-tempore Conso, nella seduta dell’11 novembre 2010 dinanzi alla commissione antimafia dichiarava: “Nel 1993 non rinnovai il 41 bis per 140 detenuti del carcere palermitano dell’Ucciardone ed evitai altre stragi”, specificando inoltre che fu una sua personale decisione escludendo l’esistenza di una trattativa. La versione del ministro, come gli è stato fatto notare durante l’audizione, però ha delle gravi incoerenze. Nel ’93, infatti, Bernardo Provenzano, almeno ufficialmente, era quasi uno sconosciuto per gli investigatori. Di lui i giornali non parlavano e Balduccio Di Maggio, il pentito che riconobbe i familiari di Totò Riina, prima del suo arresto da parte del Ros, diceva addirittura che “zu’ Binu” fosse morto. Dunque come faceva il ministro Conso a sapere che Provenzano rappresentava un’ala di Cosa Nostra contraria alle stragi? Comunque per la prima volta un ex ministro si assume la responsabilità politica di una scelta presa per andare incontro alle richieste della mafia. Una scelta che, anche contro le sue intenzioni, ha finito per rafforzarla. I capi della mafia hanno infatti avuto la dimostrazione che le stragi (Riina diceva “Si fa la guerra per fare la pace”) pagava. Infatti nel gennaio del ’94, i fratelli Graviano piazzarono una Lancia Thema imbottita di chiodi e di esplosivo davanti allo Stadio Olimpico per fare un massacro tra i carabinieri che rientravano dal servizio d’ordine e che solo a causa di un difetto al telecomando non esplose.