Quella dei Rohingya, in Birmania, è la storia di una delle popolazioni più perseguitate al mondo.

Originari del Rakhine, territorio della Birmania occidentale al confine con il Bangladesh,  praticano la religione musulmana e a quanto pare,  non sono riconosciuti da alcun Paese.

La genesi che ha portato agli scontri del 2012 è stato lo stupro e l’uccisione di una giovane donna buddista, a cui è seguita una escalation di violenza che ha portato a morti e dispersi, oltre che al saccheggio e alla distruzione di interi villaggi.

Dagli scontri del 2017 con l’esercito birmano è nata invece un’operazione di pulizia etnica, con una conseguente forte ondata migratoria che ha coinvolto tutti i Paesi limitrofi.

La questione delle terribili discriminazioni subite dai rohingya in Myanmar ha acquisito una rilevanza internazionale nel 2019, quando il Paese è stato denunciato dal Gambia con l’accusa di aver perpetrato un genocidio ai danni della popolazione di quest’etnia.

Il caso è diventato immediatamente di competenza della Corte Internazionale di Giustizia, che nel 2020, in seguito ad un’udienza richiesta sempre dal Gambia, ha ordinato misure preliminari quali la sospensione degli atti di violenza contro i 600mila Rohingya rimasti in Myanmar.

Il 28 febbraio 2022, la stessa Corte ha terminato una settimana di udienze sulle obiezioni preliminari presentate dal Paese. Si ritiene che il tribunale possa impiegare fino ad un anno per decretare se il caso abbia i requisiti necessari a procedere.

Nel caso in cui possa procedere, ci vorrà poi altro tempo per giudicare il Governo birmano.

Fino alla sentenza definitiva, resterà valido il provvedimento del 2020. È importante che il processo abbia un esito positivo affinché terminino le violenze sui Rohingya e i profughi possano essere rimpatriati.