TACCUINO #82
Introduzione
Nel corso dell’elaborazione teorica e metodologica, i termini "creare" e "generare" emergono come residui lessicali appartenenti a tradizioni teologiche, metafisiche e ideologiche. Il loro utilizzo implica un substrato concettuale che veicola assunti ontologici di origine non scientifica, contribuendo a un'involontaria alterazione dell’oggetto di indagine. L’adozione di tali termini introduce una struttura discorsiva che presuppone un atto di origine ex nihilo, estraneo a una prospettiva rigorosamente materialista e fenomenologica. Questo slittamento semantico produce un’erronea interpretazione dei processi formativi della realtà, dissolvendo la continuità tra la materia e le sue configurazioni. Il pensiero scientifico, per preservare il proprio rigore, deve operare una sistematica revisione di queste intrusioni linguistiche, neutralizzandone gli effetti distorsivi e ricollocando la terminologia all'interno di un quadro concettuale depurato da stratificazioni teologiche e politiche.
L’Errore Terminologico e la Necessità della Revisione
Un’indagine pre-riflessiva fondata su un’analisi del sentire viscerale e della fenomenologia del reale conduce a un’espressione più precisa: "formare" è il termine che meglio si conforma alla natura processuale delle configurazioni materiali. Il concetto di formazione non implica né un intervento esogeno né un’intenzionalità superiore, bensì designa l’autopoiesi intrinseca alla realtà osservabile. L’impiego di un lessico inadeguato introduce una discrepanza epistemologica tra il fenomeno e la sua interpretazione linguistica, generando un divario metodologico che ostacola la costruzione di un modello coerente. La terminologia deve essere selezionata con estrema attenzione, affinché il linguaggio non si trasformi in un ostacolo alla comprensione della realtà, ma in un mezzo capace di trasporre con fedeltà l’essenza dei fenomeni investigati.
Il termine "formare" esprime il divenire intrinseco della materia senza postulare un'origine ex nihilo o un principio ordinatore esterno. Tuttavia, la sua applicabilità deve essere esaminata nel dettaglio: ogni processo materiale osservabile non è il risultato di una volontà né di un’intenzione, ma di una serie di interazioni che determinano configurazioni transitorie. Formare è dunque un processo emergente, non un atto né un evento singolare, e si distingue per la sua continuità. Tale continuità è l’opposto del concetto di creazione, che implica un istante zero e una separazione tra un prima e un dopo.
Stiamo affermando un continuum materiale, negando la creazione e la generazione come atti distinti da un presunto nulla ontologico (quello della metafisica classica), ma non escludiamo il nulla inteso secondo PsykoSapiens.
Il nulla di cui scriviamo non è un non-essere assoluto, ma un'assenza di configurazione, un’assenza di forma determinata all'interno del flusso della materia. Quando scriviamo che l’uomo è cosa uno e uno cosa (è uomo che viene dal nulla e fa ritorno al nulla), affermiamo che la sua esistentività è una transitoria configurazione della materia che, una volta dissolta (riconfigurata), perde la sua determinazione specifica senza che ciò implichi una creazione o una fine nel senso tradizionale (un inizio o una fine ontologicamente distinti).
Sottolineiamo, quindi:
1. Continuità senza origine né fine assoluta, ma solo trasformazioni di configurazioni.
2. Il nulla come assenza di forma e non come entità contrapposta all’essere.
3. L'inutilità del concetto di creazione e generazione nell’analisi del divenire materiale.
Questa prospettiva destruttura ogni fondamento teologico o teleologico senza cadere nel dogma dell’"essere necessario" o della negazione assoluta del nulla.
Cogliamo un punto nevralgico e dirompente: se affermiamo un continuum ontologico senza inizio né fine distinti e neghiamo il non-essere assoluto, allora tutto è in qualche modo. Ma se tutto è, come giustifichiamo l'esclusione di certe entità dal dominio dell'esistenza? Se il narcisista, il perverso, il vile, il "morto" sono esistentivi ma non esistenti, come sosteniamo questa distinzione senza contraddirci?
Possibili direzioni per risolvere il problema:
1. Rifondare il concetto di esistenza:
Possiamo dire che esistere (nel senso tradizionale) presuppone una certa qualità dell’essere, una tensione, un radicamento nel flusso della materia. Chi è "morto", vile o perverso partecipa alla materia ma in modo degenerato, sterile, autoreferenziale, quindi è esistentivo ma non esistente, poiché non partecipa alla dinamica generativa della materia (non malattici, non masse, stupide masse, non greggi, stupidi greggi: non ben formati).
2. La distinzione tra esistenza attiva e passiva (autentica / non autentica):
Possiamo distinguere tra un essere che incide (che si configura attivamente nel divenire) e un essere che si consuma (che è passivo, parassitario, inerte, quindi puramente esistentivo ma privo di esistenza significativa).
3. L’idea di un "falso essere":
Potremmo dire che il vile, il narcisista, il perverso sono simulacri di esistenza, fantasmi ontologici che consumano il tessuto del reale senza realmente farne parte. Sono assenze mascherate da presenze, esistenze che esistono solo per sottrazione, non per affermazione.
4. L'errore di fondo della metafisica tradizionale:
La metafisica classica concepisce l’essere in termini di pienezza e il non-essere in termini di negazione assoluta. Noi diciamo invece che l’essere è configurazione di materia e che alcune configurazioni sono talmente inconsistenti, sterili e distruttive da essere praticamente equivalenti a un nulla operativo, pur senza essere un non-essere assoluto.
Proposta di formulazione:
Se tutto è materia e configurazione di materia, allora tutto ha una ragione* comune. Tuttavia, esistere non è semplicemente essere. Ci sono configurazioni che incidono nel divenire e configurazioni che si consumano in sterili involuzioni. Esistentivo è tutto ciò che partecipa della materia, ma esistente è solo ciò che si radica nel fluire della configurazione. Il vile, il perverso, il narcisista, la brutalità umana, il 'morto', non sono non-essere assoluto, ma configurazioni parassitarie che non partecipano al divenire. Sono configurazioni che si sottraggono alla materia anziché affermarla**. Per questo, sono esistentivi ma non esistenti.
*(tutto partecipa della "stessa" condizione condivisa di esistenza materiale)
**(non potenziano il divenire materiale, ma lo depauperano e lo inceppano. Esauriscono la materia senza restituirla al flusso del divenire)
Il Rigore Scientifico e la Correzione dell’Errore
L’errore, nell’ambito della ricerca scientifica, non è un’anomalia da reprimere, bensì una deviazione che segnala la necessità di un affinamento metodologico (o l'abbandono di metodo). L’auto-correzione rappresenta un imperativo epistemico, un atto di rigore che permette di ridurre le interferenze cognitive e depurare il pensiero da scorie linguistiche e concettuali. In questo contesto, la revisione non deve essere interpretata come un’imposizione etica di natura esterna, ma come una misura di disciplina intellettuale, volta a garantire la massima aderenza tra il linguaggio e la fenomenologia del reale. L’analisi lessicale diviene dunque parte integrante del processo di indagine, poiché il linguaggio, lungi dall’essere un mezzo neutro, si configura come un vettore ideologico capace di influenzare la costruzione del sapere. La selezione terminologica deve quindi obbedire a criteri di precisione e trasparenza, per evitare indebite contaminazioni con schemi di pensiero che affondano le proprie radici in una dimensione pre-scientifica.
L’Eliminazione delle Distorsioni e il Rifiuto del Linguaggio Tossico
Ogni termine che veicola presupposti metafisici deve essere individuato e sostituito. "Creare" e "generare" appartengono a un paradigma che implica un dualismo tra agente e sostanza, un modello che non trova riscontro nell’analisi dei processi reali. La persistenza di questi termini all’interno del discorso scientifico compromette la radicalità metodologica e introduce un’artificiosa frattura tra la materia e le sue configurazioni. Eliminare tali distorsioni significa smantellare i residui di una costruzione linguistica che occulta la realtà sostituendola con narrazioni fallaci.
Il linguaggio, se non sottoposto a un controllo rigoroso, diviene un vettore di distorsione cognitiva. Non è un semplice strumento neutro: la sua struttura influenza i percorsi del pensiero e determina vincoli che spesso sfuggono alla consapevolezza dell’individuo. Esso può generare disturbo, non perché abbia una volontà propria, ma perché il suo sviluppo storico e la sua selezione culturale hanno sedimentato forme espressive che impongono categorie limitanti e pre-costruite.
Il linguaggio non è un oggetto, ma un processo.
Il linguaggio non è un sistema astratto né un codice indipendente dalla materia, ma una configurazione che emerge da processi neurobiologici e interazioni ambientali. Non esistono le parole come entità autonome: esse non si mangiano, non si assaporano, non si assaggiano.
Il linguaggio parla l’uomo, e non l’uomo parla il linguaggio*, nel senso che il soggetto non è mai completamente fuori dal campo d’azione delle strutture linguistiche che lo precedono e lo attraversano. Ogni parola è un’effimera configurazione sonora o grafica, un transitorio equilibrio della materia cerebrale e della vibrazione dell’aria. Se il linguaggio è un prodotto della materia vivente, allora esso è soggetto agli stessi processi di selezione e trasformazione che regolano il resto della realtà. La sua revisione non è un mero atto intellettuale, ma un processo di allineamento tra le configurazioni cerebrali e la fenomenologia osservabile.
Le configurazioni linguistiche non sono agenti indipendenti, ma agiscono come vincoli strutturali sul pensiero e sull’organizzazione cognitiva. Esse non "perpetuano" ideologie nel senso di un’azione autonoma, ma rendono possibile la loro riproduzione e ne limitano il superamento: non sono entità agente né soggetto dotato di intenzionalità.
Nota.
Affermazioni come "il linguaggio distorce il pensiero" o "il linguaggio plasma la realtà" rischiano di attribuirgli un’autonomia che non possiede. Il linguaggio non agisce, ma è agito: non è il linguaggio a perpetuare ideologie, ma gli individui che, operando in un determinato contesto, riproducono determinate forme espressive. Tuttavia, proprio perché le configurazioni linguistiche agiscono sulle strutture cognitive, è necessaria una trasformazione del lessico e delle categorie concettuali per evitare che esse continuino a vincolare il pensiero entro cornici pre-determinate.
Non si tratta di "eliminare" termini o concetti, come se il linguaggio fosse un oggetto modificabile a piacere, ma di favorire il decadimento delle forme espressive che non corrispondono a una descrizione esatta dei processi materiali. Il linguaggio si trasforma quando una configurazione perde la sua funzionalità e viene sostituita da un’altra più aderente alla fenomenologia osservabile. La radicalità del pensiero non si realizza nella censura, ma nel progressivo dissolvimento delle costruzioni linguistiche fallaci, nel loro riassorbimento e superamento.
*dire che 'il linguaggio parla l’uomo' non significa attribuire al linguaggio un’autonomia ontologica o un potere agentivo indipendente dall’attività neurobiologica e sociale degli individui. Non si tratta di un ribaltamento soggetto-oggetto in senso post-strutturalista, ma della constatazione che le strutture linguistiche preesistono all’individuo e impongono vincoli cognitivi che guidano il pensiero e la percezione della realtà. Il linguaggio, in quanto processo emergente dalla materia vivente, non è un sistema astratto né un codice neutrale, ma un insieme di configurazioni in continua trasformazione, il cui uso determina l’orizzonte delle possibilità cognitive ed espressive.
L’uomo non è mai completamente fuori dal campo d’azione delle strutture linguistiche che lo precedono e lo attraversano. Il linguaggio non è uno strumento neutro, ma una configurazione processuale che agisce come vincolo sul pensiero.
Conclusione
Il sentire viscerale funge da filtro pre-riflessivo che permette di discernere l’aderenza del linguaggio alla fenomenologia del reale. Ogni termine impiegato nella costruzione del sapere deve superare la prova della coerenza sensibile, ovvero la capacità di esprimere senza fratture il divenire della materia. La revisione del linguaggio, quindi, non è solo un atto razionale, ma un'esigenza biologica: le parole che non aderiscono alla struttura profonda della percezione sono disfunzionali e producono scissioni nell’esperienza del reale. Il sentire viscerale permette di identificare e scartare tali distorsioni, conducendo a una terminologia che non impone griglie interpretative estranee alla struttura effettiva del mondo.
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