Sono settimane ormai che tutti i giorni Papa Francesco celebra la Messa senza lamentarsi della non presenza di fedeli.

Prega in solitudine senza denunciare per questo che i provvedimenti restrittivi del Governo abbiano leso il suo diritto alla “libertà di culto”.

La Conferenza Episcopale Italiana (CEI), invece, dimostra di pensarla in modo diverso e con la nota “Il disaccordo dei vescovi” dai toni inequivocabili è partita all’attacco accusando il Governo Conte, di compromettere il diritto alla libertà di culto perché ancora non concede “la riapertura ai fedeli delle Messe e delle altre cerimonie religiose”.

È innegabile che la libertà di culto sia un diritto statuito dall’art. 19 della nostra Costituzione: “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”.

È un diritto riconosciuto ad ogni cittadino a prescindere dalla fede che professa e dal Dio in cui crede.

È un diritto, però, che non concede a nessuno la facoltà di trasgredire a leggi, codici, decreti, direttive in vigore erga omnes nel nostro Paese.

Ne consegue che le norme emanate per contrastare il diffondersi del Covid-19 che, tra l’altro, prevedono il divieto di assembramenti in luoghi aperti e chiusi valgano ugualmente per i cattolici come per i valdesi, per i mussulmani come per gli ebrei, etc., senza che compromettano la loro libertà di culto.

Non solo, ma poiché si tratta di norme a tutela della vita umana, che dovrebbe essere il bene primario  imprescindibile nei pensieri e nei gesti di Monsignor Bassetti, presidente CEI, sorprende che  sia proprio lui a non condividere questi provvedimenti messi in atto per la protezione della vita umana.

Anche perché è risaputo che messe e liturgie cattoliche sono frequentate in prevalenza da persone anziane, cioè le più esposte al contagio e tra le vittime più numerose del Covid-19.

Ma c’è anche questo altro passo della nota CEI che mi lascia perplesso: “Dovrebbe essere chiaro a tutti che l’impegno al servizio verso i poveri, così significativo in questa emergenza, nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale.

Cioè, forse ho inteso male io, ma significa davvero che l’impegno caritatevole del cattolico verso i poveri e gli emarginati non è intimamente connesso alla sua professione di fede bensì si attiva di volta in volta solo dopo la somministrazione di un sacramento?