Con l’avvio di un periodo di incertezza in Siria, dopo il crollo del regime di Bashar al-Assad, Jihad Youssef, monaco e priore del monastero di Mar Musa al-Habashi, ha invitato la minoranza cristiana a contribuire al cambiamento radicale che si profila all’orizzonte

La comunità di Mar Musa

Fondata nel 1992 dal gesuita italiano Paolo Dall’Oglio e dal diacono siriano Jacques Mourad, la comunità al-Khalil, “l’amico di Dio” – nome attribuito ad Abramo sia nella Bibbia che nel Corano – occupa un posto singolare nel panorama ecclesiale siriano. Seguendo l’intuizione di Paolo Dall’Oglio, che si definiva “innamorato dell’islam e credente in Gesù”, la comunità ha sviluppato una spiritualità fondata sull’incontro e sul dialogo con l’islam.

 

Arroccato su una collina che domina il deserto siriano, il monastero di Mar Musa al-Habashi, a Nebek, è rapidamente diventato un luogo vivace, capace di riunire siriani di tutte le confessioni e giovani occidentali attratti dalla spiritualità del luogo e dalla personalità di “Paolo”.

 

Tuttavia, la guerra ha colpito duramente la comunità. Nel 2012, pochi mesi dopo l’inizio delle manifestazioni contro il regime di Bashar al-Assad, Paolo Dall’Oglio è stato espulso dalle autorità per i suoi appelli a una soluzione pacifica del conflitto e a una transizione politica. Trasferitosi in Iraq, è scomparso nel luglio 2013 a Raqqa, dove stava tentando di negoziare il rilascio di ostaggi dello Stato Islamico.

 

Nonostante le difficoltà, la comunità è riuscita a rimanere in Siria, anche quando il monastero si è trovato al centro di una battaglia regionale per il controllo dell’area del Qalamun. Un piccolo gruppo di monaci e monache è rimasto nel monastero, ormai silenzioso, dedicandosi all’assistenza della popolazione locale.

 

Nel 2015 anche padre Jacques Mourad è stato rapito da Daesh, trascorrendo diversi mesi in prigionia prima di riuscire a fuggire. Attualmente è arcivescovo cattolico di Homs, Hama e Nebek.

 

L’appello di Jihad Youssef

Forte di questa storia, Jihad Youssef, monaco e attuale priore del monastero di Mar Musa, ha rivolto un appello ai cristiani siriani affinché diventino una forza propositiva in questo periodo di transizione successivo alla caduta del regime, per ridefinire il ruolo e il posto di questa comunità ultra-minoritaria.

 

“In questo tempo di liberazione e transizione, noi cristiani siriani di diverse denominazioni non possiamo rimanere passivi, aspettando che le cose cambino da sole e rischiando di dover accettare un nuovo sistema imposto dall’esterno. Non abbiamo più nulla da perdere! Siamo appena 250.000 cristiani, di tutte le confessioni. Abbiamo poco tempo per evitare di scomparire completamente da questo Paese.

 

Ascoltiamo dunque lo Spirito Santo, affinché ci ispiri e ci guidi. Per contribuire al cambiamento radicale che si prospetta, dobbiamo avere una visione e una posizione unitaria tra le nostre diverse Chiese, in modo da proporre ai nuovi responsabili un progetto audace e realistico. Prima di tutto, dobbiamo cambiare radicalmente la nostra mentalità riguardo alla relazione con le autorità.

 

Bisogna abbandonare la logica dei millet, ereditata dagli ottomani e perpetuata fino a oggi dal regime degli Assad. Questa relazione malsana tra l’istituzione ecclesiale e l’autorità politica in Siria non è mai stata evangelica. È necessario trasformarla, rinnovarla, affinché non sia più basata su una sottomissione in cambio di vantaggi o privilegi, spesso limitati e talvolta ottenuti a scapito di altre comunità.

 

Noi cristiani siamo una minoranza in Siria, sì, ma dobbiamo esserne fieri. La Bibbia non ci descrive forse come il lievito nella pasta o il sale della terra? Non ci chiama forse ‘piccolo gregge’? Partendo da questa consapevolezza, dobbiamo chiedere ai musulmani se desiderano davvero la nostra presenza in questo Paese. La risposta è nota: sì. Ma questo ‘sì’ tradizionale non basta. Cari amici musulmani, se volete che restiamo, dovete ascoltare ciò che abbiamo da dire e accettare ciò che siamo. Altrimenti, accelererete la nostra partenza.

 

Dal nostro lato, dobbiamo cambiare atteggiamento verso l’islam, abbandonando visioni esclusive o condiscendenti. Nessun cristiano può rimanere in Oriente con l’intento di opporsi all’islam o di odiarlo. L’unica Chiesa che può sopravvivere è quella che ama l’islam, una Chiesa che non ha paura di essere un piccolo gregge né di perdere, nel senso evangelico del sacrificio.”

 

Jihad ha concluso invitando alla costruzione di un partenariato fondato sull’uguaglianza dei cittadini, sulla fede condivisa in Dio e sulla volontà comune di creare un Paese adatto a tutti. “Con umiltà e coraggio, proponiamo questo tipo di partenariato”.

 

(Davide Romano)