C’era un tempo in cui l’impiego pubblico era il sogno dorato di milioni di italiani. Il cosiddetto “posto fisso” rappresentava non solo una certezza economica, ma anche un refugium peccatorum: il porto sicuro per chi, nel mare tempestoso del mercato del lavoro, cercava stabilità e sicurezza, senza necessariamente eccellere. Era anche, e non a caso, un serbatoio di voti prezioso per la politica, che trovava nell’assunzione pubblica una leva potente di consenso. E allora gli uffici pubblici erano sovraffollati: per ogni pratica, c’erano tre o quattro persone a occuparsene.
Oggi, udite udite, lo scenario si è completamente capovolto. L’Italia non solo non ha più organici ridondanti, ma vanta – si fa per dire – il minor numero di dipendenti pubblici tra le grandi economie europee. Secondo il recente Report annuale di Fpa, presentato a Roma, il nostro Paese conta appena 5,7 impiegati pubblici ogni 100 abitanti.
Un dato che impallidisce di fronte ai numeri di Francia (8,3), Regno Unito (8,1) e Spagna (7,3).
Anche in rapporto alla forza lavoro complessiva, siamo fanalino di coda: solo il 14% degli occupati lavora nella Pubblica amministrazione, contro il 19,2% della Francia e il 17,2% della Spagna.
Le conseguenze sono evidenti: dove un tempo c’erano tre o quattro impiegati a spartirsi un compito, oggi c’è un solo dipendente a reggere il peso di una burocrazia sempre più complessa e macchinosa, e la pressione dei cittadini che – giustamente – pretendono servizi moderni, rapidi, efficienti.
Nonostante i buoni passi avanti sulla digitalizzazione spinti dal Pnrr (oltre 18.800 enti pubblici ora aderenti allo SPID, 335mila servizi digitali attivati sull’app IO), la macchina amministrativa è strozzata dalla carenza di personale e dalla pesantezza delle sue procedure.
Ma come siamo arrivati a questa situazione?
Le cause sono diverse, ma due spiccano su tutte.
Da un lato, gli stipendi nella Pubblica amministrazione sono rimasti fermi o comunque troppo bassi rispetto al settore privato e al crescente costo della vita, rendendo il “posto fisso” assai meno appetibile di un tempo.
Dall’altro, l’età pensionabile è stata progressivamente innalzata: oggi si va in pensione ben oltre i 67 anni, il che ha bloccato il fisiologico ricambio generazionale e ha contribuito a far salire l’età media dei dipendenti pubblici ad oltre 50 anni.
Eppure qualcosa si muove. Negli ultimi due anni, complice l’impulso del Pnrr e l’ampliamento degli spazi assunzionali, si sono registrate oltre 340mila nuove assunzioni. Il fascino del posto pubblico sembra ritrovare, almeno in parte, vigore: i concorsi hanno raccolto 1,3 milioni di candidature solo nel 2024. Non più solo come “posto sicuro”, ma anche come terreno di crescita professionale. Un cambiamento di percezione confermato anche dal Barometro Pa di Fpa, secondo cui il 31% degli italiani riconosce sviluppi significativi nell’efficienza della Pubblica amministrazione.
Il paradosso resta, però, intatto: se un tempo occorreva ridurre gli organici per evitare sprechi, oggi l’urgenza è esattamente opposta. Occorre investire, assumere, rinnovare. Servono almeno 20 miliardi di euro l’anno per riallineare la spesa pubblica italiana alla media europea. Un’impresa titanica, certo. Ma necessaria. Perché una macchina amministrativa moderna, snella e competente non è solo un costo: è un investimento per il futuro del Paese.