Nel panorama contemporaneo, la gestione dei dati personali rappresenta uno dei dilemmi più urgenti e complessi del mondo digitale. Ogni azione compiuta online – una ricerca su Google, un like su Instagram, un acquisto su Amazon – genera una mole di informazioni che, raccolte e analizzate, producono valore economico per aziende private, spesso senza che il cittadino ne abbia alcuna consapevolezza né benefici concreti. Di fronte a questa asimmetria crescente, prende corpo una proposta normativa rivoluzionaria: introdurre una compensazione economica proporzionale per ogni utilizzo dei dati personali a fini economici. Un’idea che punta a riequilibrare potere, ricchezza e diritti, e che si fonda su un principio giuridico ed etico semplice: il dato appartiene alla persona che lo genera, e ogni suo utilizzo deve essere remunerato.
Alla base di questa proposta vi è l’intuizione, ormai sempre più condivisa, che i dati personali costituiscono un vero e proprio bene patrimoniale immateriale. Si tratta di un cambiamento radicale di paradigma: non più la persona come “utente” o “consumatore” passivo, ma come produttore attivo di valore informativo. Ogni informazione, quando trattata digitalmente, si traduce in bit. E ogni bit può essere misurato, pesato, e valutato economicamente. È su questa base che la proposta introduce un sistema tecnico di remunerazione: ogni bit personale utilizzato a fini economici dovrà essere compensato con una cifra simbolica ma concreta – ad esempio, 0,0000001 euro per bit. A prima vista, può sembrare poco. Ma se si considera che ogni cittadino digitalizzato italiano genera in media oltre 25 miliardi di bit al giorno, il quadro cambia radicalmente. Su scala nazionale, si stima che il totale annuale possa superare i 47 miliardi di euro di valore economico prodotto solo dai dati personali.
Per rendere effettivo e trasparente questo sistema, la proposta introduce un meccanismo di controllo ispirato al modello fiscale delle slot machine italiane. Oggi, ogni slot installata sul territorio nazionale è dotata di una scheda elettronica che trasmette in tempo reale all’Agenzia delle Entrate tutte le operazioni di gioco, rendendo impossibile evadere le imposte. La stessa logica viene applicata al digitale: ogni piattaforma che raccoglie dati personali dovrà installare un “agent telematico”, ovvero un software certificato che conta ogni bit trattato, ne traccia il percorso, e genera un report quotidiano firmato digitalmente. In questo modo, il flusso informativo diventa misurabile, certificato e tracciabile, consentendo sia agli utenti che allo Stato di sapere esattamente come e quanto i dati vengono utilizzati.
Le somme raccolte attraverso questo sistema vengono poi ridistribuite secondo un doppio canale. Da un lato, ogni cittadino riceve il proprio “reddito digitale individuale”, consultabile attraverso una piattaforma pubblica protetta da SPID o CIE. Su questo portale, l’utente potrà monitorare in tempo reale la quantità di dati ceduti, l’elenco delle aziende che li hanno trattati, la tipologia di utilizzo (profilazione, pubblicità, machine learning), e l’importo accumulato. Dall’altro lato, una parte significativa delle risorse confluirà in un Fondo per la Salute Digitale e la Giustizia Tecnologica, destinato a compensare i costi indiretti prodotti dal modello attuale: disturbi psicologici legati alla dipendenza digitale, contenziosi giudiziari per cybercrime, costi sociali della disinformazione, campagne educative e molto altro.
Il meccanismo della compensazione, inoltre, non rappresenta un ostacolo all’innovazione, ma un incentivo alla sostenibilità. Le imprese saranno spinte ad adottare comportamenti più etici, evitando la raccolta indiscriminata di dati, scegliendo architetture software più efficienti (classificate tramite la scala NIC), e orientandosi verso modelli di business meno invasivi. In pratica, un’economia dell’informazione fondata non sull’estrazione gratuita, ma sul consenso informato, tracciabile, e soprattutto retribuito.
Ma cosa ne pensano i cittadini italiani di questa proposta? A questa domanda ha risposto un grande sondaggio nazionale, che ha coinvolto quasi 46.000 persone. I risultati sono sorprendenti per la loro coerenza e chiarezza. Oltre il 91% degli intervistati ritiene giusto ricevere una compensazione economica per l’uso dei propri dati da parte di aziende private. Il 66% è pienamente consapevole che ogni interazione online genera valore, mentre il restante 26% lo intuisce ma non ne conosce i dettagli tecnici. Soltanto l’8% pensa che l’accesso gratuito ai servizi digitali sia una forma di compensazione sufficiente. Il 76,2% degli intervistati afferma che si sentirebbe più tutelato se esistesse un sistema pubblico di monitoraggio e remunerazione. E ben il 49% dichiara che, se questa legge venisse approvata, aumenterebbe la propria fiducia nell’uso delle piattaforme digitali.
Per quanto riguarda l’uso delle risorse raccolte, il sentiment collettivo è orientato alla solidarietà e alla funzione pubblica: il 62,5% preferisce che le somme vengano destinate a finanziare sanità, giustizia e istruzione, mentre solo il 29,4% vorrebbe ricevere direttamente un dividendo individuale. L’8% auspica un equilibrio tra le due cose. Infine, il 91% ritiene che l’introduzione di questa legge incentiverebbe comportamenti più responsabili da parte delle imprese tecnologiche, ponendo un argine all’estrazione indiscriminata dei dati.
Questi dati raccontano molto più di una semplice preferenza normativa: esprimono una nuova coscienza civile. I cittadini non chiedono solo più tutele, ma un nuovo patto tra individuo, Stato e tecnologia. Vogliono poter scegliere consapevolmente, sapere chi usa le loro informazioni, e ricevere in cambio non solo servizi, ma anche diritti economici e strumenti di autodeterminazione. Il dato personale, da frammento opaco disperso nel cloud, diventa così l’unità fondante di una nuova cittadinanza digitale attiva.
Questa proposta normativa, dunque, non è semplicemente una legge sulla privacy o una tassa sulle big tech. È il tentativo coraggioso e visionario di costruire un’economia dell’informazione che sia giusta, trasparente, partecipata. In un’epoca in cui gli algoritmi predicono, orientano e spesso condizionano le nostre scelte, è essenziale che anche i nostri diritti si evolvano. Non basta più poter dire “no” a un trattamento. Occorre poter dire “sì, ma con regole”. Occorre affermare che la nostra identità digitale è parte integrante della nostra dignità, e che ogni briciola di informazione generata dalla nostra esistenza merita rispetto, compensazione, protezione.
Se il futuro sarà digitale – come è evidente – allora deve essere anche umano. E questa proposta di legge getta le basi per un nuovo modello di sviluppo in cui l’innovazione non è un privilegio, ma un diritto condiviso. Un modello in cui i cittadini non sono prodotti, ma produttori. Non utenti da sfruttare, ma soggetti da riconoscere. E non semplici consumatori di servizi, ma co-proprietari del valore che quotidianamente generano.
Massimiliano Nicolini, promotore del Teorema di Assisi e direttore del Dipartimento Ricerca della Fondazione Olitec, interpellato sul significato e le potenzialità della proposta, ha dichiarato:
“Non possiamo più permetterci che i dati personali siano il carburante gratuito dell’economia globale. Ogni cittadino digitale produce valore ogni giorno – e lo fa spesso inconsapevolmente, senza voce e senza ritorno. La proposta di compensazione economica per bit personale trattato non è una provocazione né una utopia, ma una necessità strutturale per riparare un’evidente asimmetria di potere tra chi fornisce informazione e chi la monetizza. È una legge che guarda al futuro: crea redistribuzione, genera sostenibilità e restituisce fiducia in un mondo tecnologico sempre più pervasivo. Il Teorema di Assisi non è solo uno strumento di misura scientifica: è un patto etico tra innovazione e umanità. La sfida che abbiamo davanti è scrivere una nuova Costituzione informativa, dove il diritto alla conoscenza non valga meno del diritto al lavoro. E dove chi produce valore ne sia anche, finalmente, protagonista.”
Queste parole non solo chiariscono la visione alla base della proposta, ma la rafforzano con una componente culturale che va oltre il mero dato economico. Rappresentano il cuore di un pensiero che unisce ingegneria dell’informazione, responsabilità sociale e dignità umana in un unico sistema, capace di restituire alla collettività ciò che oggi è disperso nelle nuvole digitali dei giganti del web.