Un paio di tweet postati da Trump nel fine settimana sono bastati per scatenare un terremoto nelle borse cinesi, i cui effetti si sono avvertiti anche in occidente. A Shanghai c'è stato un ribasso del 5,6%, a Shenzhen si è toccato il -7,6%. A Francoforte il Dax è sceso a 12.200 e a New York il Dow Jones ha aperto al ribasso.

C'è incertezza fra gli investitori. Ormai da settimane si credeva che la guerra commerciale fra Cina e Stati Uniti si stesse raffreddando, anzi si pensava che tutto finisse con un importante accordo fra i due paesi.

E invece ora l'annucio di Trump di voler aumentare, dal prossimo venerdì, dal 10 al 25% i dazi sulle importazioni dal paese asiatico, per un totale di 200 miliardi di dollari. Ma non basta. In vista c'è anche l'intenzione di applicare un dazio del 25% sulle merci provenienti dalla Cina, fino ad oggi tax-free, per un importo di 325 miliardi di dollari.

C'è da chiedersi cosa ci sia dietro le minacce di Trump e se queste si trasformeranno davvero in fatti concreti.

Dall'inizio della sua presidenza Trump ha attaccato lo squilibrio negli scambi commerciali con la Cina, dove, nello scorso anno, gli Stati Uniti hanno fatto registrare un deficit di 420 miliardi di dollari.

Nel marzo 2018 applicò i primi tassi sulle importazioni di acciaio e alluminio. A luglio fu la volta del 25% sulle importazioni di prodotti ad alta tecnologia su merci per un ammontare di 50 miliardi di dollari. Da parte sua Pechino ha risposto alzando il dazio sui prodotti Usa, per un valore totale di 110 miliardi di dollari.

A rimetterci sono i consumatori, quelli che alla fine pagano il conto. Gli importatori gravati dei dazi li scaricano sui consumatori finali. A guadagnarci è lo Stato che incassa i dazi doganali e registra un aumento delle entrate Iva, dati i prezzi più alti.

A rimetterci sono gli esportatori di entrambi i paesi. I loro prezzi diventano meno concorrenziali e a beneficiarne sono paesi terzi. Un esempio per tutti sono i produttori americani di soia, le cui esportazioni si sono ridotte a favore di quelle brasiliane.

In questi ultimi mesi ci sono stati negoziati fra il governo americano e quello di Pechino, che hanno visto seduti ai tavoli politici e diplomatici. Le trattative sembravano ben avviate e destinate a concludersi positivamente. Un aspetto oggetto di particolare contenzioso risultava la richiesta americana di eliminare i miliardi di dollari di aiuti che il governo cinese garantisce alle aziende di stato e la rinuncia della Cina al suo status di paese in via di sviluppo, fatto che garantisce vantaggi anche sotto il profilo commerciale.

La sessione di colloqui tenutasi la scorsa settimana a Pechino non è andata come Trump si aspettava e allora sono partite le minacce.

Quello che lascia particolarmente perplessi è il fatto che le tariffe doganali sono state estese a prodotti per i quali il rapporto costi-benefici per l'economia statunitense finirà per essere negativo. Si tratta di merci che non sono ormai più prodotte negli Stati Uniti e, quindi, a pagare i dazi saranno alla fine i consumatori americani.

Quale sarà la risposta di Pechino? Certamente non starà a guardare. Pur non avendo molto margine di manovra per estendere la gamma di prodotti da tassare può sempre aumentare le tariffe già applicate. Fino ad oggi quando Washington ha applicato nuove tariffe è stato Pechino che si è fatto carico degli oneri doganali.