NOI SIAMO VOI E VOI SIETE NOI (Chiudere la distanza fra medici e ammalati)

La malattia, quella grave in particolar modo, assomiglia più a un sequestro di persona che a un incidente biochimico: ti blocca ovunque tu sia, qualsiasi cosa tu stia facendo, e senza rispettare nessuna delle tue esigenze, dei tuoi progetti e dei tuoi diritti, ti porta via in un luogo lontano da tutto ciò che hai sempre conosciuto come te stesso, il tuo ambiente, e ogni tua sicurezza.

Essa diventa padrona della tua vita e da quel momento ne scandirà i ritmi e ogni altro aspetto.

Ciascuna di queste cose poi si riversa con un impatto importante e mai trascurabile (a volte devastante) su chi ti vuole bene.

Tutto questo i medici nella stragrande maggioranza dei casi non l’hanno mai vissuto; essi non conoscono l’ansia implacabile e la perdita dell’identità e della progettualità che arrivano con la malattia.

Non ne conoscono gli odori, i sapori, non hanno mai barcollato al ritorno fulmineo della consapevolezza di essere ammalati che ti assale al risveglio mattutino, o dopo quell’attimo di distrazione piacevole.

Loro percorrono i corridoi di un ospedale o sostano nella camere leggeri, camice aperto, il pensiero magari altrove.

Il paziente no… Per il paziente quegli ambienti sono ostili, ci deve stare, è costretto, ma Dio sa quanto gli sono odiose quelle eternità seduto in un corridoio in attesa di una colonscopia, di una TAC o di una biopsia; quanto detestabili e alienanti quelle luci, i rumori e tutto quel via vai che gli martella l’anima; quanto disumanizzante sia starsene su una carrozzella seminudi con indosso un camice verde e le lastre appoggiate sulle ginocchia in sosta davanti all’ascensore con una folla di medici, parenti di altri, infermieri o operatori vari che gli ronzano attorno. E poi c’è di peggio.

C’è l’incomunicabilità, c’è la tua ansia soffocante che trova il medico sempre di fretta, c’è il primario che parla agli assistenti attorno e manco ti guarda, ci sono le attese, disumane attese di giorni per sapere se quell’orma alla fine di un’astrusità che nessuno ti spiega significa che da oggi devi iniziare a morire.

Ma i medici camminano svelti fra ali di anime disorientate e pesanti, scrutano referti con parole che sono un destino segnato, che non li riguarda però.

Tu sei lì e contempli se vivrai, se soffrirai come un cane e se di speranze non nei hai più. Si sta giocando tutta la tua esistenza e tutto quello che hai fatto.

I medici stasera andranno a casa, e nulla gli sarà diverso, se non l’ordinaria vita con le beghe di sempre. Loro sono i medici, tu sei la malattia.

Loro là, tu a un milione di miglia di distanza. Ma così non si cura, così non ci si prende cura, non si guarisce nessuno, anche se si viene dimessi con un tumore in meno nel corpo.

Perché la malattia comunque rimarrà con te, anche se momentaneamente sconfitta, e tornerà col passare degli anni, perché alla fine di malattia moriamo quasi tutti, e ci ammaliamo e moriamo in una Sanità fatta in quel modo.

Ci ammaliamo e moriamo male, dopo mesi o anni passati appunto fra sofferenze che sarebbero del tutto evitabili, e che oscenamente vengono accumulate da una Medicina disumana su quelle naturalmente inevitabili.

Come cambiare tutto questo? Come fermare tanta pena inutile? Come creare una Sanità umana per umani?

La risposta mi giunse una notte, di colpo: pensai che la Medicina e la Sanità andavano ridisegnate per intero dai medici ammalati, da coloro cioè che sono passati ‘dall’altra parte’, e che oggi conoscono alla perfezione sia la scienza che la sofferenza, avendole vissute entrambe sulla propria pelle.

Avendo cioè vissuto sulla propria pelle il dolore, lo smarrimento, l’angoscia e la brutalità della malattia grave e delle terapie più estreme, ma conoscendo anche meglio di chiunque altro la macchina medica che ci dovrebbe curare.

Ma si faccia attenzione a quest’ultimo passaggio: non è più di Sanità che sto parlando, ma di Medicina, o pratica medica.

Infatti, ci rendemmo conto in corso d’opera di uno scarto di fondamentale importanza che è bene illustrare: la ragione per cui ogni tentativo di riforma politica o aziendale della Sanità è in gran parte fallito sta nel non voler comprendere che senza una rivoluzione morale e umanistica della pratica medica ogni altro tentativo di abbellire la Sanità è destinato al nulla.

Non ci potrà mai essere una istituzione Sanità a misura d’uomo se l’uomo che la gestisce non sa esserlo.

Va rivista la Medicina stessa fin dalle sue fondamenta, con la figura del medico ridisegnata interamente a partire dai primi anni della formazione universitaria, a partire dalla sua qualità morale e dalla sua capacità empatica.

Solo una Medicina di persone corpo-unico umanizzante avrà il potere di vanificare la meschineria della gestione politica e delle cordate d’interesse, o la brutalità di un sistema di lavoro sempre più meccanicistico e sempre meno a misura di persona, e questo include le liste d’attesa come ogni altro ostacolo disumanizzante.

Lorenzo Pappalardo

Sezione di Catania Movimento Sociale FT