Alitalia, un nome, un’immagine. Un bel pilota, possibilmente romano, che tra folate di venticello primaverile si avviava a prendere in mano il suo alter ego alato con i nostri colori, a portarci nella terra che sognavamo, noi, fiduciosi nella sua preparazione, nella sua cordialità, nell’assistenza di un equipaggio gentile anche in classe economica. Ricordiamo ancora il nome di un comandante, Giannangeli… gli angeli volano.
Sembra una cartolina pubblicitaria, ma per noi era anche un po’ questo, la compagnia di bandiera. Essa ci accompagnò nei nostri primi voli. Allora hostess e steward non erano necessariamente giovanissimi, gli equipaggi arrivavano alla pensione ancora viaggiando; il cibo era squisito, ti sommergevano di giornali e bei film, ti davano le calzine, ti sorridevano (quasi tutti romani anche loro).
Col tempo qualche cortesia svanì, un po’ di stile smottò, le hostess, ora più giovani, ti davano le rispostine (“damme ‘a tazza”), ma insomma, ancora ci cullavamo nell’idea dell’eternità del marchio.
E che bello sbarcare in giro per il mondo e trovare ovunque i nostri aerei! C’eravamo, dunque, esistevamo, eccoci, siamo italiani: pizza, mandolino e spaghetti, ma anche abilità, affidabilità, classe.
Sembra poco, retorica d’antan, ma vien da commuoversi. Pian piano le cose cambiarono; e di quegli aeroplani, in giro, se ne vedevano sempre meno, sostituiti da quei gingilli dai mille colori e i nomi più fantasiosi: Connemara Airlines; Comore Fly; Easywings. Ce li siamo inventati, ma più o meno…
Allora ci chiedevamo: perché la società non entra nel mercato del charter, nel low coast? I modelli erano sempre gli stessi, il parco non si rinnovava, ma i piloti, loro almeno, erano sempre bravi. Quegli atterraggi di velluto…
Beccammo scioperi selvaggi senza battere ciglio: Alitalia è sacra.
Si iniziò a parlare di trascuratezza, quasi a voler far decadere la compagnia attraverso finestre di Overton; un gioco al massacro, di cui il cittadino comune capiva sempre meno. Non si vollero cordate, bisognava conservare il brand, ma qualcuno insinuò malignità, veleni: il personale è carico di privilegi, bisogna adeguarsi all’Europa, al mondo, gli indiani volano per giorni di seguito, in America nemmeno dormono: infatti gli incidenti non mancavano.
Nel 2008, fu tutto chiaro. All’aria i progetti, via al pestaggio mediatico degli operatori, e non ci fu nulla da fare. Entrarono in scena, già belli schierati, i furbetti dell’areoplanino.
La nostra? In giro per il mondo, assente; nel mercato turistico, mai entrati; voli intercontinentali diretti, stop. L’Alitalia era divenuta una dittarella di navette che ti scaricava in qualche vera capitale europea con un hub degno del nome, dove quelli “seri” provvedevano a portarti dove desideravi. La Malpensa era buona per andarci in bicicletta, un semideserto vicino a Somma Lombardo, scarso di velivoli, ma zeppo di poltrone dirigenziali.
Il tempo è galantuomo, però, ghigna qualcuno adesso. Oggi sono tutti a terra, in gran parte, con i loro airplane sempre più sofisticati e i piloti più informatici che aviatori. Sarebbe un’ottima occasione per riprendere quel rapporto quasi carnale con gli aviogetti: i nocchieri dell’aria non hanno più fascino.