Se c'è una cosa in cui noi italiani siamo maestri, è nel dimenticare. O meglio, nel ricordare solo ciò che ci fa comodo. E così, mentre ci agitiamo tra le polemiche sui migranti e ci stracciamo le vesti per le "invasioni" dal Mare Nostrum, sembriamo aver rimosso con sorprendente disinvoltura che, non molto tempo fa, gli invasori eravamo noi.
Sì, proprio noi italiani, che tra il 1885 e il 1943 ci pavoneggiavamo per le strade di Asmara, Tripoli e Addis Abeba come piccoli lord inglesi mancati. La nostra avventura coloniale, iniziata in sordina e finita in tragedia, ha lasciato cicatrici che ancora bruciano, anche se facciamo finta di non vederle.
I numeri, si sa, sono testardi. E i numeri ci dicono che l'Italia controllava territori per circa 1,4 milioni di chilometri quadrati in Africa, un'area quasi cinque volte l'Italia stessa. La Libia, l'Eritrea, parte della Somalia, e poi l'Etiopia: il nostro "posto al sole", come lo chiamava la propaganda fascista, conquistato con le armi chimiche e la violenza che tanto ci piace dimenticare.
Ma veniamo al presente, che è figlio di quel passato quanto noi lo siamo dei nostri nonni. Nel 2023, secondo i dati del Ministero dell'Interno, sono sbarcate sulle nostre coste oltre 157.000 persone, principalmente dall'Africa. Un numero che fa gridare all'emergenza, come se non fossimo stati noi, settant'anni fa, a seminare i primi germi di questo esodo.
I rapporti economici raccontano un'altra storia interessante. L'ENI, nostro campione nazionale, continua a essere uno dei principali attori nel continente africano, con investimenti che nel 2023 hanno superato i 3 miliardi di euro. Una presenza che alcuni definirebbero "neocoloniale", se non fosse che oggi preferiamo parlare di "cooperazione economica".
E qui viene il bello, o il brutto, dipende dai punti di vista. Mentre l'Italia investe in Africa (l'interscambio commerciale con l'Africa subsahariana ha raggiunto i 19,9 miliardi di euro nel 2022), continuiamo a mantenere un atteggiamento schizofrenico verso il continente e i suoi abitanti. Da una parte, corriamo a firmare memorandum d'intesa per il gas con l'Algeria (8 miliardi di metri cubi nel 2023) e accordi commerciali con il Marocco, dall'altra alziamo muri, reali e metaforici, contro chi cerca di attraversare il Mediterraneo.
Il "Piano Mattei per l'Africa", annunciato dal governo italiano nel 2024, con un investimento previsto di 5,5 miliardi di euro, è l'ultimo tentativo di ricucire questo strappo storico. Ma come si fa a ricucire qualcosa se non si ammette prima di averlo strappato?
Le nuove generazioni di afrodiscendenti in Italia - circa 1,5 milioni di persone secondo le stime più recenti - ci ricordano quotidianamente questa contraddizione. Sono italiani a tutti gli effetti, ma devono ancora lottare per vedersi riconosciuti come tali. La legge sulla cittadinanza resta uno dei nodi irrisolti della nostra democrazia, come se avessimo paura di guardare in faccia il nostro passato coloniale.
E mentre a Bruxelles si discute di nuovi accordi con i paesi africani per il controllo dei flussi migratori (5,7 miliardi di euro stanziati nel fondo UE per l'Africa nel periodo 2021-2027), noi continuiamo a oscillare tra paternalismo e rimozione. Gli aiuti allo sviluppo italiano verso l'Africa ammontano a circa lo 0,22% del PIL, ben lontano dall'obiettivo dello 0,7% fissato dall'ONU. Numeri che raccontano di un'Italia che ancora non ha deciso che rapporto vuole avere con il continente africano.
Il colonialismo italiano in Africa è stato, come lo definì lo storico Angelo Del Boca, un "colonialismo straccione". Non avevamo i mezzi dell'Impero britannico né l'organizzazione di quello francese. Ma questo non ci ha impedito di commettere crimini e soprusi che ancora oggi influenzano i rapporti tra i due continenti.
La verità è che l'Italia non ha mai fatto davvero i conti con il suo passato coloniale. Non lo insegniamo nelle scuole, se non in modo superficiale. Non abbiamo un museo nazionale del colonialismo, come altri paesi europei. E continuiamo a chiamare "missione di pace" quella che in Libia fu una brutale occupazione militare.
I dati più recenti ci dicono che il 42% delle imprese italiane attive in Africa si concentra in tre paesi: Sudafrica, Egitto e Marocco. Una presenza economica significativa che però non si traduce in una vera politica africana. Continuiamo a navigare a vista, tra emergenze migratorie e opportunità commerciali, senza una strategia di lungo periodo.
E così, mentre il presidente cinese Xi Jinping ha visitato 39 paesi africani negli ultimi dieci anni, investendo oltre 170 miliardi di dollari nel continente, noi continuiamo a dibattere se i migranti africani siano un problema di ordine pubblico o una risorsa per il nostro mercato del lavoro.
La realtà è che l'Africa non è più quella dei documentari in bianco e nero che guardavamo da bambini. È un continente giovane (l'età media è di 19,7 anni), dinamico, con tassi di crescita economica che in alcuni Paesi superano il 5% annuo. Un continente che sta cercando di liberarsi dalle catene del passato coloniale, mentre noi sembriamo incapaci di liberarci dai nostri fantasmi.
Forse è arrivato il momento di guardare all'Africa non come a un problema da risolvere o a un mercato da conquistare, ma come a un partner con cui costruire un futuro comune. Ma per farlo, dobbiamo prima fare i conti con la nostra storia. Una storia che non può essere né cancellata né dimenticata, ma deve essere compresa e metabolizzata.
Perché, come diceva Benedetto Croce, "la storia è sempre storia contemporanea". E la nostra storia con l'Africa è tutt'altro che conclusa.
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