In premessa ci autodenunciamo ignoranti di musica classica e lirica, nel senso di “ignoscere” latino: non conosciamo, proprio, i fondamentali dello spirito che animava gli autori e pure i fruitori. Ovvero, in teoria, come europei e, di più, italiani, secondo qualcuno abbiamo quelle note e quelle risonanze nel sangue. In specie, nel nostro paese, l’opera sarebbe espressione della mentalità borghesuola di corto respiro, tra meretrici redente,  ragazzuole che la danno facile e poi soffrono, mangiatrici di uomini vendicative, e qualche gorgheggio maschile patriottardo o ferito nell’onore. Ammettiamo, però, di provare orgoglio all’idea che il bel canto abbia imposto, quantomeno, l’uso della lingua italiana quando non la parlavamo nemmeno tra di noi.

Non nasconderemo di aver vibrato sulle note dell’Agnus Dei e del Nabucco, e di rimanere breathless all’ascolto di Ludovico Van (come lo chiamava Alex di Arancia Meccanica): ma ci bloccano le esegesi di illustri esperti e columnist che hanno inchiodato certe atmosfere, soprattutto quelle austro/ungariche/ teutoniche alla costruzione di un mainstream dominatore e razzista, che perdurerebbe ancor oggi.

Né va meglio, per noi tapini, sul versante della danza “alta”, modulata su note nobili, che ci annoia senza speranza. Forse siamo rimasti traumatizzati vedendo Carla Fracci prendere a pesci in faccia il marito e suo regista, Oriella Dorella insultare un tronista senza pietà, sentire di Nureyev che lasciava cadere le partner nella speranza che si infortunassero, insomma: rinuncia totale.

Ci dedicheremo dunque a una carrellata di visualizzazioni percettive, che ci accompagnano dall’infanzia, dal periodo che potremmo definire “dopo Kennedy”.

Prima ci vengono incontro le canzoncine postunitarie, da Ciribirin in avanti, compresa la melassa alla "Maramao perché sei morto", compattata durante il ventennio italo/ungherese; seguono i melodici alla Luciano Tajoli, Alberto Rabagliati, Nilla Pizzi, Carla Boni e compagnia, esponenti della melodia all’italiana; in seguito ci trapanò le orecchie il reuccio “Claudio Villa”, versione popolare di derivazione operistica.

Frequentare i teatri ha un costo e purtroppo poco ce lo potemmo permettere, quindi tentammo ignominiosamente di star dietro a quello che passava la televisione, con un occhio alle cronache. A parte il talento stordente di musici, direttori d’orchestra corruschi alla Toscanini o amabili alla Oren, primi violini, arpe e piatti ( memorabile l’episodio di “Noi donne siamo fatte così”, con Monica Vitti), ci hanno accompagnato sempre aneddoti a dir poco sconcertanti: soprattutto per chi, come noi, uscito a stento dalla plebe, vedeva costoro come gli dei scesi in terra e non è in grado di trattare di registri vocali e notte sollevate su scale a chiocciola, schieramenti di fans crudeli peggio di ultras e reciproche voci feroci, ma non per virtuosismi vocali.

Mario Del Monaco presentava una spocchia degna di un imperatore; l’anacoluta Maria Callas, a detta del marito abbandonato, ingoiava vermi solitari per dimagrire; la sua rivale, voce di cristallo Renata Tebaldi, concesse la sua presenza ad Alda D’Eusanio, e la omaggiarono di un pezzo non cantato da lei, rischiando le sue ire da primadonna; Katia Ricciarelli sembra sputare disprezzo sugli interlocutori ( poi veniamo a sapere che si rovina al gioco) e, casomai, preferiamo ricordare la brava e riservata Lucia Valentini Terrani. Potremmo continuare, ma ci fermiamo a uno per tutti e tutti per uno, Luciano Pavarotti.

Il modenese gloria nazionale (1935/2007), che ebbe parole al polonio per il contrapposto poi sodale, oggi 79 anni,  Placido Domingo (l’altro spagnolo celebre, José Carreras, ora 74enne, ex boy friend di Katia pur avendo moglie, era il terzo componente del gruppetto che faceva cassa come “I tre tenori”), rimarrà l’ultima star a tutto tondo del settore: e non si pensi a una battuta dovuta alla sua mole.

Arrivato da un territorio dove si gorgheggia anche durante la mietitura, sogno realizzato di un papà che non riuscì nella stessa carriera, lo ricordiamo girare impellicciato accanto a donzelle adoranti e quasi porgere  l’anello in stile soglio pontificio: questo, quando era ancora sposato con Adua. Perché alla sua svolta sentimentale, sempre secondo i maligni quali noi non siamo, la seconda moglie Nicoletta lo trascinò in un turbine di collaborazioni, da Zucchero a Sting alle Spice Girls ( ancora qualcuno le ricorda?), che non solo ci spiazzò ma, sempre secondo i perfidi da cui ci dissociamo, non avrebbe raggiunto il dichiarato scopo di beneficare i poveri della terra. Di più, Vittorio Gassman attirò il malcapitato ( si fa per dire) Luciano in una trappola, per smascherarlo (sarebbe meglio dire, sp…tanarlo), e far sapere al mondo che il tenorone non conosceva nemmeno il pentagramma ed emetteva i suoi acuti “ a orecchio”.

Una cosa è certa: quando abbiam veduto questi esimi professionisti, dai musicanti ai cantori, nella fossa (o golfo mistico) per le prove, non ci sono sembrati diversi dagli Aerosmith.

E ci sovviene anche un poco di “noir”, per esempio le vicissitudini del tenore genovese Fabio  Armiliato, che vi facciamo raccontare da Musicamoreblog:  “…Nell’agosto del 1995 durante la Tosca allo sferisterio di Macerata ( con Raina Kabaivasnka ndr)   un fucile caricato male a salve  aveva ferito alle gambe Fabio Armiliato costringendolo ad abbandonare il palcoscenico, anche se ormai alle battute finali.
La settimana successiva quando stava entrando in scena, al secondo atto, mentre il perfido barone Scarpia lo stava aspettando seduto davanti alla tavola imbandita per interrogarlo, è scivolato nel corridoio. E s’ è infortunato l’ altra gamba, quella su cui si era retto durante tutto il primo atto. Scena bloccata, qualche applauso e il direttore d’ orchestra Donato Renzetti: “Il tenore non esce, deve essere successo qualcosa…E lui, Armiliato, mentre esce dallo sferisterio in barella mormora: “Possibile che non riesca mai ad uscire da qui con le mie gambe?...”

 Come ci colpì una vicenda, con tutto il rispetto per Armiliato, un poco più grave, accaduta nelle Marche, terra d’amore per l’arte in argomento. Da Il Messaggero.it “La mattina del 4 luglio del 2006 Bruno Carletti…allora direttore del teatro comunale di Macerata, l’ha gettata senza pietà ( la moglie ndr) in un cassonetto dei rifiuti dopo averla bastonata, strangolata  e riposta in un portabiti ancora viva. «Non ricordo nulla, più mi sforzo e più non riesco»...”


E' un mondo come un'altro, si dirà. E allora, benché da italiani, imbevuti di queste arie e, quali europei, assonati alle volute di Inno alla Gioia e il Rondò alla turca (che avete capito, lo conoscemmo attraverso la pubblicità del detersivo  Supertrim), a volte preferiamo dedicarci a un altro genere di cui nulla capiamo, ma le cui vibrazioni urbane, come quelle di “Take Five”ci hanno accompagnato da bambini nelle immagini di una infinita distesa vuota, ma da riempire con i nostri sogni, laddove il passato sembrava volerceli consegnare già impacchettati.

D’altronde i soloni del Cicap, a proposito di Mozart dicono, per esempio “…Non pensate poi che se ascoltare musica di Mozart aiutasse la buona salute e il benessere emotivo, Mozart stesso non avrebbe dovuto essere l'artista emaciato e tribolato che la storia ci tramanda?”

Ah, ecco perché. Ora ci sentiamo sollevati, avevamo ragione noi poveri dementi attaccati a Elvis.