Il recente parere della Segreteria di Stato dell'economia svizzera, secondo cui gli autisti impiegati dall'impresa di trasporto Uber devono essere considerati lavoratori dipendenti a tutti gli effetti, è sicuramente importante, perlomeno come indicazione di principio.
È risaputo, infatti, che Uber, come altre aziende della cosiddetta gig economy, o economia dei lavoretti (fra cui troviamo Airbnb, Foodora, ecc.) considera i propri collaboratori come lavoratori indipendenti, una sorta di “imprenditori di sé” che, mettendo a disposizione la propria automobile o il proprio appartamento, partecipano a quella “economia della condivisione” (sharing economy) che tanto piace agli ideologi del nuovo capitalismo delle piattaforme.
Dimenticando che chi vi lavora prende di solito salari da fame, lavora a ritmi indecenti e non beneficia di alcuna copertura assicurativa, come denunciato dal sindacato Unia e dalla trentina di autisti dipendenti di Uber che in dicembre hanno scioperato a Ginevra. Dimenticando, anche, che queste aziende pagano tasse risibili nei Paesi dove producono utili, impoverendoli e avviandoli a un futuro senza welfare.
È ancora difficile dimensionare statisticamente questa realtà economica emergente, in termini sia di posti di lavoro creati che di reddito generato. È certo però che, anche in Svizzera, stiamo assistendo ad una specie di “uberizzazione” della società, se è vero che negli ultimi anni sono fortemente aumentati i posti di lavoro a tempo parziale (siamo ormai al 38%, un record europeo!).
Non solo aumenta il part-time, ma aumentano i lavori di durata sempre più breve, quei lavoretti che si accettano di fare per arrotondare, per compensare a livello di economia domestica la perdita di reddito dovuta alla stagnazione o riduzione dei salari. Non è un caso se la maggior parte dei posti di lavoro creati recentemente siano, appunto, lavori a tempo parziale e, soprattutto, posti di lavoro occupati da donne.