Il primo appuntamento di sabato del viaggio Apostolico del Papa a Panama in occasione della Giornata Mondiale dela Gioventù è stato quello della celebrazione della Santa Messa nella Cattedrale Basilica di Santa Maria la Antigua, con la dedicazione dell’altare, alla presenza di sacerdoti, consacrati e movimenti laicali.

Queste le parole di Francesco pronunciate all'omelia, commentando l’episodio evangelico dell’incontro di Gesù con la Samaritana: «Il Signore si è affaticato, e in questa fatica trovano posto tante stanchezze dei nostri popoli e della nostra gente, delle nostre comunità e di tutti quelli che sono affaticati e oppressi.

Le cause e i motivi che possono provocare la fatica del cammino in noi sacerdoti, consacrati e consacrate, membri dei movimenti laicali, sono molteplici.

Dalle lunghe ore di lavoro che lasciano poco tempo per mangiare, riposare e stare in famiglia, fino a tossiche condizioni lavorative e affettive che portano allo sfinimento e logorano il cuore; dalla semplice e quotidiana dedizione fino al peso rutinario di chi non trova il gusto, il riconoscimento o il sostegno per far fronte alle necessità di ogni giorno; dalle abituali e prevedibili situazioni complicate fino alle stressanti e angustianti ore di tensione. Tutta una gamma di pesi da sopportare.

Sarebbe impossibile cercare di abbracciare tutte le situazioni che sgretolano la vita dei consacrati, ma in tutte sentiamo la necessità urgente di trovare un pozzo che possa placare e saziare la sete e la stanchezza del percorso: tutte invocano, come un grido silenzioso, un pozzo da cui ripartire.


Da un po’ di tempo a questa parte non sono poche le volte in cui pare essersi installata nelle nostre comunità una sottile specie di stanchezza, che non ha niente a che vedere con quella del Signore. Si tratta di una tentazione che potremmo chiamare la stanchezza della speranza.

Quella stanchezza che nasce quando i raggi del sole cadono a piombo e rendono le ore insopportabili, e lo fanno con un’intensità tale da non permettere di avanzare o di guardare avanti. Come se tutto diventasse confuso.

Non mi riferisco alla "particolare fatica del cuore" di chi, a pezzi per il lavoro, alla fine della giornata riesce a mostrare un sorriso sereno e grato; ma a quell’altra stanchezza, quella che nasce di fronte al futuro quando la realtà "prende a schiaffi" e mette in dubbio le forze, le risorse e la praticabilità della missione in questo mondo che tanto cambia e mette in discussione.



È una stanchezza paralizzante. Nasce dal guardare avanti e non sapere come reagire di fronte all’intensità e all’incertezza dei cambiamenti che come società stiamo attraversando. Questi cambiamenti sembrerebbero non solo mettere in discussione le nostre modalità di espressione e di impegno, le nostre abitudini e i nostri atteggiamenti di fronte alla realtà, ma porre in dubbio, in molti casi, la praticabilità stessa della vita religiosa nel mondo di oggi. E anche la velocità di questi cambiamenti può portare a immobilizzare ogni scelta e opinione, e ciò che poteva essere significativo e importante in altri tempi, sembra non avere più spazio.

La stanchezza della speranza nasce dal constatare una Chiesa ferita dal suo peccato e che molte volte non ha saputo ascoltare tante grida nelle quali si celava il grido del Maestro: "Dio mio, perché mi hai abbandonato?"

Così possiamo abituarci a vivere con una speranza stanca davanti al futuro incerto e sconosciuto, e questo fa sì che trovi posto un grigio pragmatismo nel cuore delle nostre comunità. Tutto apparentemente sembra procedere normalmente, ma in realtà la fede si consuma e si rovina.»

Sfiduciati verso una realtà che non comprendiamo o in cui crediamo non ci sia più spazio per la nostra proposta, possiamo dare cittadinanza a una delle peggiori eresie possibili nella nostra epoca: pensare che il Signore e le nostre comunità non hanno nulla da dire né da dare in questo nuovo mondo in gestazione. E allora succede che ciò che un giorno è nato per essere sale e luce del mondo, finisce per offrire la propria versione peggiore.


Dammi da bere è quello che chiede il Signore, ed è quello che chiede a noi di dire. Nel dirlo apriamo la porta della nostra stanca speranza per tornare senza paura al pozzo fondante del primo amore, quando Gesù è passato per la nostra strada, ci ha guardato con misericordia, ci ha chiesto di seguirlo; nel dirlo, recuperiamo la memoria di quel momento in cui i suoi occhi hanno incrociato i nostri, il momento in cui ci ha fatto sentire che ci amava, e non solo in modo personale ma anche come comunità.

È ritornare sui nostri passi e, nella fedeltà creativa, ascoltare come lo Spirito non ha creato un’opera particolare, un piano pastorale o una struttura da organizzare ma che, per mezzo di tanti "santi della porta accanto" – tra i quali troviamo padri e madri fondatori dei vostri istituti, vescovi e parroci che hanno saputo dare basi solide alle loro comunità –, ha dato vita e ossigeno a un determinato contesto storico che sembrava soffocare e schiacciare ogni speranza e dignità.

Dammi da bere significa avere il coraggio di lasciarsi purificare e di recuperare la parte più autentica dei nostri carismi originari – che non si limitano solo alla vita religiosa, ma a tutta la Chiesa – e vedere in quali modalità si possano esprimere oggi. Si tratta non solo di guardare con gratitudine il passato, ma di andare in cerca delle radici della sua ispirazione e lasciare che risuonino nuovamente con forza tra di noi.

Dammi da bere significa riconoscersi bisognosi che lo Spirito ci trasformi in uomini e donne memori di un passaggio, il passaggio salvifico di Dio. E fiduciosi che, come ha fatto ieri, così continuerà a fare domani.

La speranza stanca sarà guarita quando non temerà di ritornare al luogo del primo amore e riuscirà ad incontrare, nelle periferie e nelle sfide che oggi ci si presentano, lo stesso canto, lo stesso sguardo che suscitò il canto e lo sguardo dei nostri padri. Così eviteremo il rischio di partire da noi stessi e abbandoneremo la stancante autocommiserazione per incontrare gli occhi con cui Cristo oggi continua a cercarci, a chiamarci e a invitarci alla missione.