Secondo quanto pubblicato sull'American Journal of Physiology – Endocrinology and Metabolism da Maria Cristina Gauzzi e Laura Fantuzzi dell'ISS, in risposta ad una lettera inviata alla stessa rivista da Hrvoje Jakovac dell'Università di Rijeka (Croazia) dal titolo "COVID-19 and vitamin D-Is there a link and an opportunity for intervention?" (COVID-19 e vitamina D - esiste un legame ed una opportunità di intervento?), adeguati livelli di vitamina D al momento dell'infezione con Sars-CoV-2 potrebbero favorire l'azione protettiva dell'interferone di tipo I – uno dei più potenti mediatori della risposta antivirale dell'organismo – e rafforzare l'immunità antivirale innata negli individui.

«La nostra ipotesi – fa sapere Maria Cristina Gauzzi - si basa su dati della letteratura che dimostrano come la vitamina D, oltre ad avere un effetto antivirale diretto nei confronti di alcuni virus, possa cooperare con l'interferone di tipo I per potenziare le risposte antivirali».

Questo fenomeno – si osserva nella lettera - è stato descritto nell'infezione con il virus dell'epatite C e con rinovirus. Inoltre, evidenze a supporto di un effetto additivo della vitamina D e dell'interferone di tipo I nell'induzione di geni ad attività antivirale provengono anche da studi condotti in pazienti affetti da sclerosi multipla.

«Nelle fasi più avanzate del COVID-19 l'attività immunomodulatoria della vitamina D potrebbe invece contribuire a ridurre il danno legato all'iperinfiammazione nei pazienti con forme severe di malattia. L'interazione tra vitamina D e interferone di tipo I - concludono le due ricercatrici - è ancora poco studiata ma potrebbe rivelarsi di grande importanza, anche in considerazione del fatto che dati recenti della letteratura indicano che le complicanze dell'infezione da SARS-CoV-2 possono essere conseguenti ad una produzione insufficiente o ritardata di interferone nella primissima fase dell'infezione».