Il discorso che Mattarella ha pronunciato a Vittorio Veneto per celebrare il 74.esimo anniversario della Festa della Liberazione è un monito a quei disgraziati rappresentanti delle istituzioni, di cui il ministro dell'Interno Salvini è oggi il portabandiera ma non l'unico interprete, che si rifiutano di festeggiare il 25 aprile favorendo una riscrittura della storia che meglio si adatti, tra incongruenze, reticenze, menzogne e invenzioni, alla propaganda pseudo fascista che è ritenuta più conveniente per promuovere in questo periodo le loro fortune elettorali.
Al vero e proprio schifo rappresentato dalle dichiarazioni del ministro dell'Interno e segretario della Lega in base alle quali la Festa della Liberazione dal nazifascismo sarebbe diventata d'un tratto - e non si sa bene perché - la Festa della Liberazione dalla mafia (con cui oltretutto membri del suo partito sembrerebbero, indirettamente, fare affari), Mattarella ha contrapposto il ricordo di che cosa è stato il nazifascismo e chi erano i partigiani che l'hanno sconfitto, aggiungendo anche che "la storia insegna che quando i popoli barattano la propria libertà in cambio di promesse di ordine e di tutela [promesse che ricordano qualcuno, ndr], gli avvenimenti prendono sempre una piega tragica e distruttiva".
"Festeggiare il 25 aprile – ha detto il presidente della Repubblica - significa celebrare il ritorno dell'Italia alla libertà e alla democrazia, dopo vent'anni di dittatura, di privazione delle libertà fondamentali, di oppressione e di persecuzioni. Significa ricordare la fine di una guerra ingiusta, tragicamente combattuta a fianco di Hitler. Una guerra scatenata per affermare tirannide, volontà di dominio, superiorità della razza, sterminio sistematico.
Se oggi, in tanti, ci troviamo qui e in tutte le piazza italiane è perché non possiamo, e non vogliamo, dimenticare il sacrificio di migliaia di italiani, caduti per assicurare la libertà a tutti gli altri. La libertà nostra e delle future generazioni.
A chiamarci a questa celebrazione sono i martiri delle Fosse Ardeatine, di Marzabotto, di Sant'Anna di Stazzema e di tanti altri luoghi del nostro Paese; di Cefalonia, dei partigiani e dei militari caduti in montagna o nelle città, dei deportati nei campi di sterminio, dei soldati di Paesi stranieri lontani che hanno fornito un grande generoso contributo e sono morti in Italia per la libertà. Questo doveroso ricordo ci spinge a stringerci intorno ai nostri amati simboli: il tricolore e l'inno nazionale (così ben cantato dal coro di ragazzi e adulti, complimenti al maestro Sabrina Carraro).
È il dovere, morale e civile, della memoria. Memoria degli eventi decisivi della nostra storia recente, che compongono l'identità della nostra Nazione da cui non si può prescindere per il futuro.
Il 25 aprile del 1945 nasceva, dalle rovine della guerra, una nuova e diversa Italia, che troverà i suoi compimenti il 2 giugno del 1946, con la scelta della Repubblica e il primo gennaio 1948 con la nostra Costituzione.
Il 25 aprile vede la luce l'Italia che ripudia la guerra e s'impegna attivamente per la pace. L'Italia che, ricollegandosi agli alti ideali del Risorgimento, riprende il suo posto nelle nazioni democratiche e libere. L'Italia che pone i suoi fondamenti nella dignità umana, nel rispetto dei diritti politici e sociali, nell'eguaglianza tra le persone, nella collaborazione fra i popoli, nel ripudio del razzismo e delle discriminazioni.
Non era così nel ventennio fascista. Non libertà di opinione, di espressione, di pensiero. Abolite le elezioni, banditi i giornali e i partiti di opposizione. Gli oppositori bastonati, incarcerati, costretti all'esilio o uccisi. Non era permesso avere un pensiero autonomo, si doveva soltanto credere. Credere, in modo acritico e assoluto, alle parole d'ordine del regime, alle sue menzogne, alla sua pervasiva propaganda. Bisognava poi obbedire, anche agli ordini più insensati o crudeli. Ordini che impartivano di odiare: gli ebrei, i dissidenti, i Paesi stranieri. L'ossessione del nemico, sempre e dovunque, la stolta convinzione che tutto si potesse risolvere con la forza della violenza.
E, soprattutto, si doveva combattere. Non per difendersi, ma per aggredire. Combattere, e uccidere, per conquistare e per soggiogare. Intere generazioni di giovani italiani furono mandate a morire, male armati e male equipaggiati, in Grecia, in Albania, in Russia, in Africa per soddisfare un delirio di dominio e di potenza, nell'alleanza con uno dei regimi più feroci che la storia abbia conosciuto: quello nazista.
Non erano questi gli ideali per i quali erano morti i nostri giovani nel Risorgimento e nella Prima Guerra Mondiale".
Qui il discorso completo del presidente della Repubblica Sergio Mattarella...