A rendere paradossale la vicenda della nave Sea-Watch 3 è il fatto che chi viene accusato di violare la legge è chi invece la legge la rispetta, al contrario dell'Italia e di chi al momento la rappresenta.

Naturalmente, questo vale solo se il diritto, in questo Paese, conta ancora qualcosa.

Di quale diritto si sta parlando? Non certo del decreto legge 53/2019, conosciuto come sicurezza-bis, bensì del diritto internazionale consuetudinario (che nel nostro ordinamento ha valore di diritto costituzionale in base al rinvio operato dall'art. 10 Cost.), della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (CNUDM) e della Convenzione di Amburgo sulla ricerca e il soccorso in mare (SAR) - entrambe ratificate dall'Italia e che nel nostro ordinamento hanno valore di legge, anzi superiore alla legge per l'art. 117 Cost. - in base alla quale il soccorso si conclude solo con lo sbarco delle persone in un porto sicuro.

E per essere definito sicuro un porto deve garantire che la vita di chi è stato salvato lì non sia più in pericolo e i diritti umani fondamentali siano garantiti.

La Libia non è però in grado di garantire un porto sicuro. Chi lo ha detto? Il ministro degli Esteri del Governo italiano, Enzo Moavero Milanesi, in una riunione da lui avuta il 28 giugno con il Rappresentante Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite per la Libia, Ghassan Salamé.

«Non è colpa mia se non cambio posizione - ha dichiarato Enzo Moavero Milanesi - ma Tripoli non è un porto sicuro e non sono io a dirlo, ma le convenzioni internazionali. La definizione di porto sicuro dipende da delle convenzioni internazionali e per la Libia non ci sono le condizioni: questo è un dato di fatto, non di opinione».

Una volta stabiliti i principi del diritto, passiamo ad elencare i fatti. In questo ci viene in soccorso la ricostruzione che della vicenda Sea-Watch ha fatto, in una serie di tweet, l'Ong Mediterranea. Quello riportato di seguito è il loro contenuto.

Il 12 giugno la Sea-Watch3 salva 53 persone in zona SAR libica, un tratto di mare che la Libia si è auto-attribuito, perché così funziona con le zone SAR, con un atto che potrebbe e dovrebbe essere contestato solo da un altro Stato che sollevasse la questione presso il Tribunale internazionale del mare di Amburgo: come può un paese che non è un porto sicuro coordinare la Ricerca e il Soccorso di naufraghi in un'area enorme di mare?

Inutile dire che nessuno Stato ha in questo momento interesse a contestare la cosa. E così un paese in guerra si ritrova ad avere una cosiddetta Guardia Costiera finanziata coi soldi dell'Europa e dell'Italia, che cattura chi scappa da torture e bombe e li riporta indietro.

Semplicemente un crimine che viola una decina di convenzioni internazionali.

Dopo il salvataggio del 12 giugno, eseguito obbedendo a un dovere etico e giuridico, la nave chiede un porto sicuro, come il diritto internazionale prevede. L'unica risposta ricevuta è: portate i naufraghi a Tripoli, sotto le bombe, per l'appunto. Ordine impossibile da eseguire.

A questo punto, alla capitana Carola Rackete, in assenza di altre indicazioni, non resta che seguire quanto previsto dalla Legge e portare le persone di cui ha la responsabilità nel porto sicuro più vicino dal punto del soccorso, ovvero Lampedusa, poiché Malta era più distante.

Ma perché i naufraghi non sono stati condotti in Tunisia? Perché la Tunisia non è dotata di centri che garantiscano la prima accoglienza, né ha mai implementato un sistema che garantisca il diritto di asilo, oltre al fatto che non ha mai concesso un porto a una nave della società civile.

Quindi, l'unica scelta per la Sea-Watch3 era quella di dirigersi verso Lampedusa, nel pieno rispetto della legge. Alla nave, con ancora 53 persone a bordo, viene però intimato di non fare ingresso nelle acque territoriali italiane perché, in accordo col Decreto-Legge appena entrato in vigore, il suo passaggio non sarebbe considerato “non inoffensivo”.

Peccato, però, che questo decreto sia incompatibile, come presto sarà dimostrato nelle sedi deputate, coi principi del diritto internazionale che abbiamo citato prima.


A contorno della vicenda si possono citare le contraddizioni dell'Europa nel non rispettare i patti sottoscritti in merito all'accoglienza dei migranti, la mancanza di soluzioni alle motivazioni che spingono le persone a fuggire dall'Africa, l'impossibilità di accogliere l'intero popolo africano in Europa (in base a quanto qualcuno si ostina a voler indicare come minaccia concreta)... ma tutto ciò non giustifica, in alcun modo, il comportamento inumano e criminale delle istituzioni italiane nei confronti di 40 persone.


E per porre fine a questa vicenda grottesca, la capitana coraggiosa, all'una di questa notte ha detto BASTA, e ha diretto la sua nave verso il porto di Lampedusa dove ha attraccato intorno alle 2:30, nonostante i tentativi di una motovedetta della Guardia di Finanza di impedire l'ormeggio alla Sea-Watch 3.

Il blitz è costato alla ormai non più solo coraggiosa, ma sicuramente mitica, capitana Carola Rackete di essere messa in stato di fermo per aver contravvenuto agli ordini di una nave militare, reato che prevede fino a 10 anni di reclusione. I migranti sono ancora a bordo in attesa che si attivino le procedure per il loro sbarco.


Se per la capitana dovesse essere confermato l'arresto, già ci si immagina una campagna a suo favore in Germania, che non gioverà certo all'immagine del nostro Paese. E tutto per la propaganda di un ministro sgangherato che, pur non avendone diritto, si è messo alla testa di un ancor più sgangherato Governo che pretende di essere preso sul serio solo perché tortura qualche decina di persone in base al proprio tornaconto politico, impedendone lo sbarco che invece non ha impedito negli stessi giorni ad altre centinaia di migranti arrivati sulle coste italiane, ma non a bordo di una nave di una Ong.

Una follia! Nel frattempo le donazioni a favore di Sea-Watch hanno raggiunto i 300mila euro.