Grande mela...

Roberto e Genna sperimentano i famigerati voli interni americani,ed eccoli in California. La luce californiana è splendida, gialla e grigia di smog, così glam.

La guida di San Francisco è una ragazza che parla un buffo italiano e si scusa: il papà è polacco, la mamma veneziana e da tanto non parla nella nostra lingua. Rinunciano a seguirla, anzi ogni tanto lei chiede: come si dice questo in italiano? Poi a un bresciano prende la nausea e nel pullman non si respira più.

Los Angeles: pozzi di petrolio,strade interminabili, mano nelle impronte dei divi, le ville delle stars hollywoodiane e, la sera, Rodeo Drive, Beverly Hills. Circolano strane auto con buontemponi un po’ fatti, che tirano roba dai finestrini. Roberto e Genna speravano di beccare Harrison Ford a fare jogging.

A Disneyland, primo litigio all’italiana. Due attempate romagnole vogliono passare avanti nella fila e ne nasce un tafferuglio: facciamoci conoscere.

Ultima tappa, Las Vegas.

Coi pochi dollari residui non hanno grandi possibilità alle slot machines. E d’altronde, dove andare? Ci vogliono un mucchio di dollari anche per le cose più banali, se esci a fare due passi il sole del deserto ti uccide, il giro dei casinò lascia basiti.

Enormi cameriere sulla sessantina in minigonna servono ai tavoli. Aleggia un’ atmosfera da “rat pack” * , da Bugsy Siegel: piccoli avventurieri, donne in cerca di compagnia, anziane matrone alcolizzate senza sostentamento e, in giro, vecchie limousine. Tutto è insidiato dalla sabbia del deserto.

Con le riserve monetarie agli sgoccioli, e per impudenza giovanile, Genna scherza con una monetina da dieci lire e prova a ficcarla in una sloat machine; il vigilante le placca il braccio e le fa intendere di non riprovarci, con un’espressione truce. Morale: non fate gli scemi all’estero. Limitatevi all’Italia.

Intanto quella sbobba che chiamano caffè comincia a piacere. In fondo l'America è sempre l'America.

Al ritorno Roberto e Genna tampinano tutti per mesi, raccontando l'esperienza senza posa fino a che si fa loro il vuoto intorno. Li chiamano "gli americani". Dopo qualche anno, è il 1989, ci tornano pure.

Non ci sono parole per questa terra, che non siano già state dette: perfezione di plastica, sensazione di artificiale, di disadattamento umano organizzato. Ricchezza ostentata, miseria da terzo mondo. Pena e rabbia. Razzismo strisciante. Italo americani più distanti di un cinese. Sensazione di già visto, di ingresso in un film girato a Hollywood. Le distanze infinite, gli spazi immensi. Ciò che chiameremmo alienazione o squallore, assume fascino di per sé. La bellezza stucchevole di prati e boschi o barriere coralline dura un attimo. Il deserto del Nevada, che dicono nasconda tombe di morti ammazzati in quantità, ti mostra il deserto della tua vita nell’ufficio, nella fabbrica, nel condominio. Un giorno capiremo. Per ora, rifugiamoci nella vecchia Italia.

L’ultimo ricordo: una giornata di fine giugno, una passeggiata sul ponte di Brooklyn, guardando Manhattan che lasciavi alle spalle, una leggera brezza che muoveva i capelli. Qualche foto delle Torri Gemelle.

Continua...