Il Burundi è un piccolo stato situato nel cuore dell’Africa, compreso fra il Rwanda, la Repubblica Democratica del Congo e la Tanzania.
Dal 1993 fino al 2005 il paese è stato scosso da una guerra civile che conta 300.000 vittime e oltre un milione di sfollati. Ancora oggi la popolazione è costretta a fronteggiare una situazione aleatoria.
Come conseguenza de “la crise”, termine usato per indicare la guerra civile, Il Burundi è annoverato tra i paesi più poveri al mondo. La popolazione vive con meno di 1,9 dollari al giorno, i progressi democratici ottenuti dopo la guerra civile sono stati vanificati da una nuova ondata di politica autoritaria che usa repressione e violenza contro gli oppositori e non garantisce i diritti di base. Criminalità e bande armate sono diffuse anche in ragione delle persistenti difficoltà economiche cui è sottoposta la popolazione.
A pagarne le conseguenze, come sempre, sono le fasce più deboli, tra cui i bambini. I bambini sono un elemento costitutivo dello scenario urbano della capitale Gitega; sono lì, per le strade, che si arrabattano in tutti i modi con la speranza di guadagnare quanto basta per sopravvivere.
Molti di loro lavorano nei campi coltivando banane, mais e fagioli, trasportano generi alimentari, oppure, nelle aree urbane, vengono impiegati come domestici, una piaga che il governo è impegnato da anni a combattere.
Nel contesto culturale del paese, purtroppo, quella del lavoro minorile è una pratica diffusa e radicata, non a caso il Burundi figura tra i paesi con il più alto tasso di sfruttamento minorile; secondo Unicef, almeno un bambino su cinque è impiegato in varie forme di sfruttamento.
Circa il 50% di questi bambini non completa il proprio percorso educativo dopo la scuola primaria e a causa della mancanza di insegnanti e materiali didattici le lezioni non sono sempre garantite. È una realtà cruda quella del Burundi, una realtà fatta di vite dilaniate, scandite null’altro che da stenti e miseria. Una realtà che non può più essere ignorata.