Gli Aztechi al Colosseo. Il popolo palestinese come concetto politico
Chiunque volesse oggi dichiarare, in una delle troppe trasmissioni televisive alla moda, che quello di “popolo palestinese” è un concetto politico, non antropologico, verrebbe accolto quantomeno con sorpresa, oppure gli verrebbe inveito contro con rabbia. Eppure questa è una dichiarazione talmente elementare che si dovrebbe in realtà restare sorpresi del fatto che appaia come un tema di controversia. Prima della costituzione dello Stato d’Israele nel 1948, e della vittoria militare contro una lega di eserciti arabi che aggredì proditoriamente il Paese, il termine “palestinesi”, utilizzato come indicazione di un popolo particolare, era sconosciuto. “Palestinesi” erano, all’epoca, tutti coloro i quali abitavano nel protettorato inglese della Palestina e venivano definiti tali tanto gli ebrei quanto gli arabi e gli altri.
I termini “Palestina” e “palestinesi” vengono però ormai usati ripetutamente con una tale ostinazione che, nell’opinione pubblica occidentale, hanno acquisito una sorta di “legittimità storica”. Eppure, ancora alla fine degli anni ‘70, la stagione stragista con cui terroristi dell’OLP colpirono dalle Olimpiadi di Monaco fino a Vienna e Fiumicino, noti esponenti dell’organizzazione si rifiutavano di riconoscere una distinzione tra palestinesi ed altri arabi dell’area. “Non c’è alcuna differenza tra giordani, palestinesi e libanesi; siamo tutti membri di un'unica nazione”, dichiarò chiaramente Zahir Muhsein, capo delle operazioni militari di Arafat e dell’OLP, nel corso di un’intervista pubblicata dal giornale olandese Trouw il 31 marzo 1977. “Solo per ragioni politiche siamo attenti a sottolineare la nostra identità di palestinesi, poiché uno Stato di Palestina separato sarebbe un’arma in più nelle mani degli arabi per combattere il Sionismo. Sì, chiediamo uno Stato palestinese per ragioni tattiche”.
Il giornalista arabo-americano Joseph Farad ha anche aggiunto un interrogativo che fa da eco alla dichiarazione di Muhsein: “Non è interessante che, prima della Guerra dei sei giorni, non vi fosse, tra gli arabi, un serio movimento per fondare una patria palestinese? Com’è possibile che i palestinesi abbiano improvvisamente scoperto la loro identità nazionale dopo che Israele ha vinto la guerra?".
A dispetto delle nozioni culturali o storiche, il discorso sulla Palestina e sui palestinesi è entrato così tanto nell’arena del linguaggio comune che oggi pochi prestano la dovuta attenzione al contenuto di tale termine ed alla sua legittimità. Da dove deriva la parola "Palestina"? Il nome latino Palaestina trae origine dalla tribù cananea dei Filistei, che a sua volta è un nome proveniente dall’etimologia dell’ebraico P'lishtim, ossia “quelli che vengono da Pəlešeṯ”. La stessa traslitterazione latina del termine ha, dunque, un’origine ebraica. Ufficialmente, il nome Palaestina è entrato nella storia perché i Romani, proprio riferendosi a quest’etimologia ebraica, lo adottarono intorno al II secolo e non c’è alcun legame tra la tribù cananea e gli arabi odierni.
Anche Yehezkel Bin-Nun, nel suo saggio Il mito del popolo palestinese, ha evidenziato alcuni interessanti problemi geografici. “Per mantenere la farsa di essere una popolazione indigena, i propagandisti arabi hanno dovuto fare più di una piccola riscrittura della storia”, ha scritto Bin-Nun. “Una parte importante di questa riscrittura riguarda la ridenominazione della geografia. Per duemila anni la regione montuosa centrale di Israele è stata conosciuta come Giudea e Samaria, come testimonia qualsiasi mappa medievale dell’area. Ma da quando la Giordania ha occupato l’area nel 1948, l’ha ribattezzata Cisgiordania. È un nome strano per una regione che in realtà si trova nella parte orientale del Paese e può essere chiamata ‘Ovest’ (West) solo in riferimento alla Giordania” (Israel Insider, 7 gennaio 2002).
Questo sovvertimento della realtà storica avviene con il consenso della grande maggioranza della stampa, dell’accademia, di alcuni politici e – fatto abbastanza sconcertante – di quelli che l’industria culturale passa per “intellettuali”. Nell’arena politica, anche tra quelli che, paradossalmente, si definiscono progressisti, è molto comune, in tale contesto, trovare dichiarazioni giudeofobiche mascherate da antisionismo. Questo è probabilmente uno dei motivi per cui il reverendo Martin Luther King, certamente un uomo di grande acume e sensibilità per tutto quello che riguarda la discriminazione ed il razzismo, durante un discorso del 1968 ad Harvard, demistificò certi travestimenti politici della giudeofobia con una breve ma conclusiva dichiarazione: “Quando la gente critica i sionisti, quello che vogliono intendere sono gli ebrei. Si parla allora qui di antisemitismo. When people criticize Zionists, they mean Jews. You are talking anti-Semitism”.
Quando si dice che l’individuo contemporaneo è sempre impegnato, indaffarato in tutte le varie faccende e compiti che il mondo amministrato gl’impone, questo vale non solo per l’aspetto materiale, ma anche per quello cognitivo. Ciò significa che è già l’affaccendamento dell’individuo moderno a condurlo all’abdicazione delle capacità di leggere ed interpretare il mondo. Questo “spiega”, in un certo modo, il proliferare contemporaneo di opinion leader: una persona interamente assorbita nelle faccende del quotidiano non avrà più le energie o il tempo necessari per farsi un’idea coerente di ciò che è oltre il suo orizzonte e finisce, così, per affidarsi a quelli che pretendono di avere quella visione che egli non ha il tempo o le energie per formarsi. Quella che, in altre epoche, poteva definirsi come “pigrizia intellettuale” diventa, in una realtà sociale sempre più costretta nella velocità e negli affaccendamenti, una conseguenza naturale.
In questo contesto di alienante confusione un fatto storico elementare come quello secondo cui il termine “popolo palestinese” è un concetto politico, appare non soltanto nuovo, ma anche incredibile per la gran parte delle orecchie costantemente bombardate da una comunicazione generalista che non si pone più da tempo il compito di chiarificare ed approfondire.
Già con Marshall McLuhan, uno tra i più importanti teorici della comunicazione moderni, il quale conia il termine “the medium is the message”, bisognerebbe da subito intendere che se, già in linea di principio, il mezzo prevale sul messaggio, non si parla più di comunicazione ma d’altro. Una comunicazione in cui il mezzo prevale sul messaggio, oltre a schiacciare quest’ultimo, può certo indirizzare, indottrinare, manipolare, ma non può offrire una visuale oggettiva sugli eventi e non si pone la ricerca dell’oggettività neppure come intento. La modernità crede, infatti, che l’oggettività sia vittima della soggettività e che, dunque, non esistano più delle visioni oggettive: una mela è per me tale e per un altro una castagna. Uno tra i più importanti teorici della comunicazione come McLuhan ci dice qui, con una massima riassuntiva, che la comunicazione dei mass media costringe il messaggio in un ruolo gregario rispetto al mezzo. Nella modernità è allora il mezzo a soggiogare la comunicazione. Questo riesce a spiegare efficacemente l’eclatante amnesia collettiva su fatti storici evidenti. Il moderno, del resto, si configura proprio per la lenta scomparsa dell’oggettività e così la società contemporanea tramonta, passo dopo passo, sotto i magli della volontà incosciente: “non importa se sono un pesce, voglio lo stesso una bicicletta” dirà una delle autrici di quest’epoca imbarazzante.
David Mamet ha recentemente concluso l’articolo How the Democrats betrayed the Jews del 23 ottobre 2023 scrivendo: “il brivido malato dell'antisemitismo ha anche un prezzo: la rinuncia alla ragione e, con essa, alla coscienza. the sick thrill of antisemitism also has a price: the surrender of reason, and, with it, of conscience”. La crisi della modernità è allora tanto nell’intelletto quanto nella coscienza che non riesce più a discernere un orientamento etico in una realtà sociale e individuale ormai profondamente sconvolta dalla confusione e dalla sragione, mancando così di riconoscere che l’odio e la violenza gratuita si pongono sempre al di fuori di ogni razionalità. Quando, nella notte in cui tutti i gatti sono neri, tutto sembra si equivalga, si smarriscono tanto la competenza morale, quanto l’orientamento etico. Basterebbe allora combattere efficientemente la sragione per accendere almeno un po’ di luce.