L'Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la violenza con queste parole: "Uso intenzionale della forza fisica o del potere, minacciato o effettivo, contro se stessi, un'altra persona o contro un gruppo o una comunità, che ha un'alta probabilità di provocare lesioni, la morte, un danno psicologico o la privazione ". Anche la violenza, quindi, è stata per così dire scientificamente definita, ha avuto una sua “etichetta”, senza che ci siano dubbi sulla possibilità o meno di riconoscerla.

Secondo l’ultimo rapporto mondiale dell’OMS, nel 2013 sono morti 1,28 milioni di persone di cui 842.000 sono state attribuite a suicidio, 405,000 alla violenza interpersonale e 31.000 alla violenza collettiva, cioè guerre e interventi legali. Delle persone morte a causa della violenza interpersonale (che è il fenomeno maggiormente preoccupante e che ci riguarda)180.000 sono morti sotto l’assalto di armi da fuoco, 115.000 perché aggrediti con coltelli o oggetti affilati e 110.000 per altre cause. Inoltre, a tutto questo bisogna aggiungere che per ogni mortalità dovuta a violenza, ci sono un numero elevatissimo di ospedalizzazioni, interventi di pronto soccorso e appuntamenti medici, e che, anche quando la violenza non produce effetti mortali può avere conseguenze permanenti per la salute fisica e mentale con gravi ripercussioni sullo sviluppo sociale ed economico.

I fattori che determinano la violenza sono complessi e diversi e per questo su di essi sono stati fatti studi e individuati modelli specifici che li classificano e li rappresentano. Il modello più conosciuto e applicato è il ”modello ecologico” che suddivide la violenza in quattro livelli differenti ognuno con caratteristiche proprie. Il primo livello individua i fattori biologici e personali che influenzano il comportamento e che aumentano la probabilità di diventare vittime o autori di violenza (età, istruzione, reddito, genetica, lesioni cerebrali, disturbi della personalità, abuso di sostanze ecc.). Il secondo livello, si concentra sulle relazioni affettive strette, famiglia, amici, modelli di riferimento a cui il soggetto si ispira e che in modo diretto o indiretto condizionano il suo comportamento spingendolo verso atteggiamenti che possano renderlo vittima o autore di fatti violenti. Il terzo livello esplora il contesto della comunità di appartenenza, quindi quartiere, scuola, ambiente di lavoro, luoghi che, a seconda delle situazioni (ad esempio spaccio di droga, povertà ecc.) possano influenzare forme diverse di violenza. Il quarto livello, infine, considera i grandi fattori sociali come responsabili della crescita o della inibizione della violenza quali ad esempio, il funzionamento della giustizia penale, le norme sociali e culturali, la diseguaglianza dei redditi, il funzionamento o meno del sistema di assistenza sociale, la disponibilità delle armi, l’instabilità politica.

Il caso Daniele Piervincenzi, l’inviato di Nemo, aggredito dall’esponente del clan sinti ostiense Roberto Spada, e ancor più il fenomeno CasaPound, che è nato e sta crescendo nel territorio di Ostia e non solo, a cui per forza di cose occorre collegarlo, deve essere inquadrato a mio giudizio in quest’ultimo livello, cioè in un contesto di instabilità politica da cui scaturiscono come fenomeno parallelo, tutti gli altri fattori, primo tra questi la diseguaglianza dei redditi, che per dirla con parole semplici significa povertà, fenomeno sempre più dilagante in Italia e che secondo i dati Istat del 2016 interessa il 10,6% della popolazione, circa 6,5 milioni di abitanti. E’ proprio grazie alla povertà che trovano terreno fertile comportamenti antisociali, movimenti pseudo politici, alcune forme di mafia, tutto ciò come risposta collettiva a un malcontento generale, alla sperequazione economica, al sentirsi abbandonati da uno Stato che, come un buon padre di famiglia, avrebbe il dovere di pensare a tutti i suoi figli e non soltanto ai figli prediletti, cosa che, purtroppo non accade.

E' in simili condizioni, quindi, che si sviluppano Movimenti come CasaPound. In essi ci stanno quelli che si sono sentiti abbandonati dallo Stato, ma anche coloro che su questo terreno ci marciano, ergendosi a paladini del mondo, difensori dei diritti umani, per creare o accrescere il loro potere, per speculare attraverso una pseudo politica sulle disgrazie altrui. Ci stanno insomma i delusi e i furbi, i poveri e i millantatori, gli elettori e i falsi politicanti, e con loro, spesso trova posto anche chi, pur non appartenendo a nessuna delle suddette categorie, riesce comunque a farsi spazio, a farsi accettare, imponendo regole senza rispetto della legalità, con la forza bruta, con la violenza fisica, con la mafia. Il connubio tra pseudo politica (debole nella sostanza, nei principi, nei fondamenti) e mafia (non timorosa delle istituzioni, trasgressiva delle regole sociali, pronta a imporsi con ogni mezzo pur di raggiungere il proprio obiettivo) il più delle volte è inevitabile. La violenza, quindi, oltre a essere fine a se stessa, o ad appartenere a forme delinquenziali comuni, spesso nasce e si espande all’interno di aggregazioni tra mafia e pseudo politica che insieme decidono di condividere gli aspetti più orridi che portano al potere.

James Gilligan, a proposito di violenza, scrive: “L'uso della violenza è spesso una fonte di orgoglio e di difesa dell'onore, specialmente tra i maschi che spesso credono che la violenza definisca la virilità”. Ora, osservando bene la reazione di Roberto Spada nei confronti del giornalista Daniele Piervincenzi, ho avuto proprio questa sensazione e mi è venuta in mente la frase di Gilligan che avevo letto tempo fa in un suo libro. Nel filmato (visibile su Internet e messo in onda dalle maggiori trasmissioni televisive e da tutti i telegiornali) si vede bene come la conversazione fosse giunta già alla fine, come Spada, qualche attimo prima di aggredirlo, fosse in procinto di girare le spalle al giornalista e andarsene: era stato buono per tutto il tempo, aveva mantenuto il controllo sulle “provocazioni” del suo interlocutore, che motivo c’era di farlo proprio alla fine, quando poteva ormai tirare il fiato e rilassarsi, farlo con quella violenza, in quel modo così plateale?... L’ha colpito nel momento in cui tra loro due si era creato un momento di silenzio, una pausa, un vuoto di parole, quando non c’era più che dire e probabilmente il giornalista sarebbe andato via. Ecco, è successo proprio in quel momento, è successo perché Roberto Spada in una frazione di secondo deve aver capito che gli sarebbe stata negata la possibilità di qualunque reazione a difesa del suo onore, del suo orgoglio ferito. Certo, avrebbe potuto farlo dopo, in qualunque momento e magari senza correre rischi, ma non sarebbe stata la stessa cosa, non avrebbe mai potuto farlo davanti a una telecamera: davanti alla telecamera era stato umiliato e davanti la telecamera doveva lavare la sua offesa, in modo che tutti potessero vedere, in modo da non deludere i suoi familiari, i suoi amici, i suoi fans, a costo di andare in galera. E così ha fatto… forse senza riflettere… forse istintivamente.

All’indomani dell’accaduto, Roberto Spada è stato arrestato dai carabinieri e portato nel carcere di Regina Coeli, con le accuse di lesioni aggravate e violenza privata con l’aggravante di aver agito in un contesto mafioso. Il commento del ministro dell’Interno Marco Minniti è stato il seguente: “Il fermo di Roberto Spada è la dimostrazione che in Italia non esistono zone franche”. La mia risposta al commento del ministro è che in Italia invece le zone franche ci sono… eccome! E che smetteranno di esistere solo quando la priorità dello Stato sarà quella di prevenire simili atti violenza, di educare prima ancora che punire, di concentrarsi sul territorio in modo da evitare che esistano zona privilegiate e zone abbandonate a se stesse. Quando lo Stato si renderà veramente conto che esiste una relazione fortissima tra povertà concentrata e violenza, e finalmente si adopererà con ogni mezzo per ridurre la diseguaglianza tra i redditi, allora, probabilmente, l’Italia potrà dire di non avere “zone franche”.